domenica 30 ottobre 2016

Lunedì, la mattina

Il lunedì é sempre una giornata difficile.
Intanto viene dopo la domenica, e già questo, di per sé, é un piccolo trauma. Benedetta domenica: dovrebbe servire per riposare e per smaltire almeno una parte del lavoro arretrato e  invece passa in un battibaleno avendo combinato poco o niente di utile e l'essersi stressati inutilmente per non aver concluso nulla di buono. Un disastro.
Ti svegli prima dell'alba e la prima cosa a cui pensi é che hai davanti un'intera settimana da affrontare, sette giorni infiniti con infiniti e fantasiosi problemi che ti aspettano e non sei tanto sicura di potercela fare. Poi ti prende il panico, appena ti ricordi delle innumerevoli cose da fare, che hai tralasciato o non hai terminato o hai accantonato, e ti sembra che il tempo sia pochissimo per stiparci dentro tutti gli impegni che ti sei assunta del tutto avventatamente e imprudentemente.
Indecisa se essere più spaventata per l'eternità da attraversare o più preoccupata per il tempo che si comprime e sparisce sotto i tuoi occhi, decidi che tanto vale alzarsi e iniziare a fare qualcosa.
Il primo caffè del mattino, al buio, in silenzio; la prima luce del giorno che invade la cucina e ti riporta alla realtà: partenza, pronti, via. Buongiorno, la nuova settimana é ufficialmente iniziata.
Sono già in ritardo, su tutto. La cosa bella é che ho già ampiamente superato il problema dell'infinito che mi aspetta rincorrendo come una disperata ogni secondo che perdo. Se non altro la mia ansia perenne ha preso una direzione precisa. Ordine, chiarezza e coerenza, non chiedo altro.
Appena metto piede in farmacia, ancora il camice in mano, insieme a tutto il variegato quanto indispensabile contenuto delle mie tasche, nel tragitto dalla porta alla mia agenda (due metri scarsi) mi fermano almeno in quattro, ciascuno con un quesito stravagante, urgente, improcrastinabile da sottopormi immediatamente. Ognuno ha il suo metodo e stile: c'é chi mi guarda e con finta aria contrita sussurra che lo sa che non é il momento, ma....Chi é pronta con l'elenco delle telefonate e delle persone che mi hanno cercata come una perfetta segretaria efficiente e dispiaciuta quanto basta; chi non si fa tanti scrupoli e spara quesiti a bruciapelo come se introducesse gettoni in una macchina; chi cerca di incuriosirmi anticipandomi pettegolezzi succulenti...
L'idea é di agguantare l'agenda e nascondermi in laboratorio, ma é una vana speranza.
Mentre cerco di dribblare le domande più spinose e rinviare le decisioni meno impellenti, i telefoni non hanno pace e non sono ancora riuscita ad organizzare la mia giornata.
Non sono ancora le dieci e sono già esaurita.
Ieri un'amica mi ha raccontato che da quando ha imparato a prendere le cose come vengono, senza forzarle e senza appesantirsi di milioni di domande inutili, così con semplicità, senza troppe aspettative, la vita é diventata più leggera e soddisfacente. L'ho ascoltata con interesse e curiosità, ma mentre parlava nella mia testa le domande da milioni erano diventate miliardi, con tanto di tesi, antitesi e sintesi. Forse per certe cose bisogna esserci tagliate: io non solo non ci sono nata, ma per tutta la vita ho coltivato l'arte del dubbio e mi sono specializzata nell'analisi infinitesimale di ogni questione. Ammiro sinceramente chi é in grado di comportarsi con tanta semplicità, l'ammiro e la invidio con tutta l'anima, ma io non ne sono capace.
Mi ha fatto anche notare che inizio moltissime risposte con il no, cioè non sono quasi mai d'accordo con il mio interlocutore: é vero, non ci avevo mai fatto caso prima, ma devo riconoscere che é vero. Fra gli altri difetti ho anche un insopprimibile vocazione alla minoranza e alle cause perse.
Raggiungo finalmente la mia scrivania e l'agenda, determinata a riprendere saldamente le redini del mio destino: mi siedo, catturo al volo una penna e mi accingo finalmente a pianificare la settimana.
Sto ancora raccogliendo le idee e la prima vera emergenza irrompe come una slavina: una badante si è accorta che la sua assistita, lasciata sola per qualche ora, ha sciolto in un bicchiere la metà dei farmaci preparati per tutta la settimana e teme che ne abbia ingerito una parte. Sono tutti qui: la badante, la sua assistita, il bicchiere incriminato con la sua mistura immonda, la cartella dei farmaci, la vicina di casa che le ha accompagnate in macchina, l'amica della badante come supporto e garanzia.
Dalla vivacità e dall'energia con la quale ciascuna mi offre la sua versione dei fatti e da come si accusano a vicenda delle intenzioni più nefaste, deduco che stiano  tutte bene e non sia successo nulla di grave: il più è cercare di calmarle e capirci qualcosa. Mi viene un'idea brillante: mi faccio lasciare tutto e rimando l'indagine al pomeriggio, promettendo analisi misteriose quanto accurate.
La mattinata è passata, non ho concluso niente di utile e mi aspetta un pomeriggio impegnativo.
Per essere un lunedì, la settimana promette proprio bene


domenica 23 ottobre 2016

Un infuso di calma mattino e sera

Di carattere sono piuttosto fumina. Tradotto per chi non parla il lessico strampalato della mia famiglia: sono spesso esagitata, nevrastenica, concitata, tono di voce con parecchi decibel di troppo, timbro acuto e stridente.
Non si preoccupa mai nessuno. Tanto ormai hanno capito tutti che più urlo e mi agito e meno sono veramente arrabbiata. Non solo, ma con la logica perversa che quasi sempre accompagna il nostro comportamento, è un trattamento che riservo solo alle persone che stimo e a cui voglio bene. È un po' come se, sicura del legame e del rispetto che ci lega, non reputassi necessario adottare modi urbani e distaccati per sostenere le mie opinioni.
Non si preoccupa mai nessuno, dicevo, né tantomeno si offendono o ci rimangono male. Si limitano a guardarmi con aria compassionevole e premurosa, come si guarda una cara vecchia zia nubile, burbera e brontolona, ma a cui si vuole tanto bene lo stesso. È più mi agito e sembro spiritata, è più si godono la scena, si impensieriscono se la voce mi abbandona, mi offrono solleciti acqua o caramelle o supporto morale quando le energie cominciano a scemare e inizio a perdere colpi.
Solo quando sto zitta é un gran brutto segno. La rabbia, quella vera, la delusione, mi seccano la gola, le parole mi escono misurate, pacate, non c'è niente che mi calmi di più della furia più profonda. Quando non vale più la pena di discutere, il silenzio riassume tutte le risposte.
Sono talmente abituata al fatto che nessuno si scomponga più di tanto (per non dire che rimangono assolutamente serafici) che non mi controllo neppure quando potrebbero sentirmi sconosciuti non avezzi alle mie scenografiche esternazioni.
Immaginatevi la scena: zona al pubblico piena (non é difficile visto che in tutto sono circa venti metri quadri). Retro (cioè il magazzino, altrettanto piccolo, direttamente connesso alla zona al pubblico da vani senza porta): io, urlando come una pazza fuori di testa,  cerco di spiegare il concetto e gli ambiti di ogni singolo ruolo lavorativo (cioè che cosa deve fare esattamente) ogni collaboratore. Oggetto di discussione: l'idea di ordine e di razionalizzazione di ogni settore del magazzino.
Già l'argomento é particolarmente ostico (ognuno ha un'idea diversa di ordine), i pregiudizi e i luoghi comuni si sprecano, tutti si sentono chiamati in causa ma non vorrebbero venire direttamente coinvolti, gli sguardi si fanno sempre più vacui e smarriti, la mia voce ha ormai raggiunto il tono isterico di quando non riesco a trasmettere quello che nella mia testa appare talmente evidente da non richiedere ulteriori spiegazioni e invece risulta del tutto incomprensibile a chi ho davanti.
Una delle farmaciste al banco mi si avvicina e mi sussurra dolcemente che sto spaventando una cliente.
Mi nascondo in laboratorio mortificata.
La collega mi raggiunge e mi spiega che la cliente vorrebbe parlarmi, ma é un po' preoccupata per quello che ha sentito.
Vorrei sprofondare nella parte dell'inferno più profonda, il girone degli iracondi non basta. Mi faccio coraggio e vado.
Ci guardiamo, un secondo in silenzio. Non so come scusarmi, le parole non mi escono proprio, per fortuna viene da ridere a tutte e tre. Riesco solo  a biascicare che non sono arrabbiata, mi sento solo incapace di farmi capire e questo mi mette in difficoltà e mi spinge a reazioni eccessive.
"Si, ma c'é modo e modo". È vero: c'è modo e modo. Ci viene di nuovo da ridere.
Ci sono persone che conosci per caso, magari in circostanze poco favorevoli, eppure ti piacciono subito, così, senza una ragione precisa. Poi ci parli, e scopri che sono anche meglio, e per qualche alchimia del destino riesci a comprenderle e a farti capire d'istinto, semplicemente.
Sono i grandi piccoli miracoli che ogni tanto ci vengono donati, nonostante le nostre, troppe, inadeguatezze

domenica 9 ottobre 2016

C'è farmaco e farmaco

Adesso quando mi alzo al mattino è buio.
In cucina, da sola, il primo caffè della giornata, la finestra che piano piano si rischiara su un mondo che fatica a trovare i colori abituali. È il momento più bello della giornata: le ansie che mi hanno svegliata si diluiscono in questa luce timida e fredda e perdono quasi tutta la loro forza.
Un nuovo giorno è iniziato. Chissà come andrà a finire.
Mi ha cercato in un pomeriggio qualunque, nell'ora in cui sono più stanca e vorrei mollare tutto e andarmene a casa. È una signora minuta, la voce bassa e gentile, gli occhi profondi, i modi semplici e signorili.
È venuta per parlare proprio con me e aspetta paziente che mi possa occupare di lei.
Sono già in crisi: tra l'orgoglio di sapere che persone sconosciute mi danno  tanto credito e la paura  di deludere le aspettative sono prossima al panico.
Mi racconta il suo dramma in modo tranquillo, tanto che sul momento faccio fatica a rendermi conto della situazione. Mi racconta dei suoi dieci anni di lotta contro un tumore come se mi descrivesse la cronaca di un tran tran quotidiano, un impiego banale con i suoi alti e bassi continui e scontati.
Sono sempre più in difficoltà: le malattie mi atteriscono e sono sempre più conquistata dalla sua calma. Io, che la calma non so bene neppure dove stia di casa, che vivo lottando continuamente con un caos perenne di pensieri e sentimenti, di fronte a questa piccola signora mi sento del tutto incapace di offrire il più piccolo aiuto.
È venuta per chiedermi informazioni sull'ennesimo rimedio miracoloso proposto come  panacea di tutti i mali dai santoni del web, magica soluzione che ha già guarito milioni di persone senza controindicazioni ed effetti collaterali: desidera conoscere la mia opinione, ma sa già come la penso. Mentre mi affanno a scegliere le parole meno sbagliate per rendere il mio pensiero un po' meno crudele, riesce comunque a rassicurarmi, lei a me, e questo mi fa sentire ancora più inadeguata.
Mi viene in mente uno spot ideato per promuovere la farmacia: la farmacia é l'unico posto sempre aperto dove chiunque può chiedere un consiglio sulla sua salute. Bellissimo. E adesso?
Adesso cosa le dico, cosa faccio? Come me le lo invento un consiglio sensato?
Pesco delle belle goccine prodigiose e confido nell'effetto  placebo buono per tutte le evenienze?
Mi appello al fatto indiscutibile che non sono un medico e mi sottraggo con eleganza (e un po' di sdegno) alla situazione difficile?
Lei ha cercato me, me, in persona. Sa benissimo che non sono un medico, non cercava un medico, ha un oncologo di fiducia che stima e di cui si fida. Sa anche che non mi sostituirei mai ad un medico, non so come ma sembra conoscermi bene.
Ha bisogno di un farmacista. Sembra incredibile, perfino a me che mi ostino a credere che il mondo abbia bisogno di buoni farmacisti, ma cerca proprio un farmacista.
Rendermene conto mi emoziona, ma, nel contempo, mi avvilisce profondamente.
Sono del tutto impotente: per lei non posso fare assolutamente niente. Non posso neppure darle qualche speranza. Non ho miracoli da magnificarle, neppure un piccolo prodigio estemporaneo che tanto male non può fare. Niente.
Posso solo inviarle un mio pensiero ogni mattina, non é molto, non é un gran farmaco, non cura proprio niente. Di più non posso fare, e, se devo essere sincera, forse fa più bene a me che a lei.
Perché anche i farmacisti hanno spesso bisogno di cure.

domenica 2 ottobre 2016

Tra un "posso" e un "vorrei"

È tutto il giorno che provo a scrivere d'altro.
Avrei un sacco di cose da raccontare, ma non mi vengono le parole giuste. Continuo  a sfogliare il dizionario in cerca di termini che sembrano sfuggirmi, ma che, in realtà, non ci sono proprio nella mia testa.
In quel caos infinito di pensieri che mi contraddistingue ce n'è uno che continua a tormentarmi da moltissimo tempo: debbo dargli una forma qualsiasi, o finirà per non darmi pace.
I nuovi laboratori sono finiti e ieri abbiamo fatto una piccola festa di inaugurazione. Nulla di particolare: quattro dolcetti, un po' di spumante e le persone più care a condividere il  nostro momento felice.
Un anno e nove mesi di lavori, rumore polvere sporco, disagi di tutti i generi, non abbiamo mai chiuso neppure per un giorno. Progetti, discussioni, preventivi, discussioni, intoppi, analisi, rianalisi, verifiche, discussioni, controlli: quasi due anni della mia vita inseguendo un'idea che non sapevo bene neppure come dovesse essere. Sapevo quello che non volevo, e mi sembrava già un buon punto di partenza. Ho imparato abbastanza in fretta che era decisamente poco.
Però avevo un vantaggio: mio figlio ed io in laboratorio ci viviamo e con i rischi e i problemi ci facciamo i conti ogni giorno. Con infinita presunzione ho scartato tutte le proposte delle varie ditte specializzate perché non soddisfacevano del tutto  le mie esigenze e con un gruppo di temerari ci siamo lanciati nell'impresa. Nessuno di noi aveva mai realizzato qualcosa di simile e nessuno sapeva esattamente cosa fare.
Ho toccato con mano l'enorme difficoltà di conciliare il "vorrei" con il "posso", e  ho scoperto con infinito stupore che dal "non posso" e dal "non me lo posso permettere" sono nate le soluzioni migliori e le idee più innovative. Poche cose stimolano la fantasia come ostacoli ed errori.
In questi mesi ho visto la casa in cui sono cresciuta, la casa dei miei genitori, a poco a poco sparire fra calcinacci e nuove pareti: già faccio fatica a ricordarmi l'orribile cucina dove mia madre regnava incontrastata o lo studio dove ho dormito per anni. Il soggiorno a cui era legato tenacemente mio padre, buio e  oberato di mobili scuri, oggi é un ambiente accogliente e pieno di luce; le pareti bianche e di vetro rendono la stanza più grande e gradevole.
Ho invitato alla festa gli amici più cari dei miei genitori: volevo vedessero quello che avevamo creato. Avevo bisogno che mi aiutassero a salutare il passato per accogliere meglio il futuro.
Mio padre non avrebbe mai approvato le mie scelte, né le avrebbe comprese.Le sue argomentazioni sono sempre state razionali, equilibrate, essenzialmente corrette. Mi ha sempre invitato alla prudenza, alla moderazione, al realismo. Fai il meglio che puoi, dove sei, con quello che hai.
Non ne sono stata capace. Ho avuto bisogno di uscire dal mio piccolo mondo per provare a crearne uno più nuovo.
Funzionerà? Non ne ho idea. Ci credo e ci spero. Ma non ne sono sicura. Tutt'altro.
Ho anche molta paura, ma questa é la vita. Fai il meglio che puoi e poi prega.
Me lo immagino, mio padre, lassù, ovunque egli sia, che tormenta mia madre. Tua figlia é una pazza, falla stare tranquilla, chissà cos'altro si inventa. Neppure l'adorato nipote si salva. Tutto figlio di sua madre: prima vuole  fare il chimico a tutti i costi e adesso eccolo lì, pronto a cambiare il mondo come se i chimici contassero veramente qualcosa. O i farmacisti.
Ma voglio pensare che lo dica scoppiando di orgoglio.