domenica 25 dicembre 2016

È passato un anno

È passato un anno da quando ho cominciato a scrivere questo blog, un anno nel quale questo é diventato l'appuntamento delle mie domeniche, il piacere e l'incubo con il quale terminano le mie settimane.
È nato un po' per scherzo e un po' perché sono sempre stata affascinata dalla parola scritta: tantissimi anni fa, da ragazzina, mio padre scoprì un piccolo raccontino che stavo tentando di scrivere. Doveva essere veramente terribile e ricordo ancora lo sconforto con il quale ne parló sottovoce a mia madre.
Non ho piu avuto il coraggio di prendere una penna in mano.
Mia madre non c'è più da molti anni e mio padre é mancato quasi tre anni fa.  Da qualche parte, dentro di me, si é riaffacciato quell'antico desiderio, quella spinta mai del tutto sopita verso la magia sottile della parola scritta: la facile accessibilità del web e i  social hanno fatto il resto.
Una delle discussioni più accese che faccio spesso  con i miei figli verte proprio sul potere della parola scritta: in particolare, mio figlio mi contesta di sopravvalutarla troppo. È vero,  sono di una generazione nata e cresciuta senza i computer, quando ai ragazzini gli insegnanti di italiano facevano raccogliere in un quadernetto le parole nuove o sconosciute per arricchire il proprio vocabolario o veniva considerato errore grave sbagliare il tempo del congiuntivo in relazione al grado di ipoteticitá  di un periodo; venivamo derisi o redarguiti se leggevamo romanzetti commerciali al posto dei classici della letteratura perché non era così che avremmo affinato il gusto e lo spirito critico.
È difficile spiegare cosa ti spinge a scrivere.
All'inizio volevo solo raccontare che cosa accade nel retro di una farmacia: avevo l'impressione che le persone, in genere, non si rendessero conto di quanto complesso e delicato e faticoso é il nostro lavoro, ma ci vedessero, piuttosto, come sciatte ed annoiate commesse con il callo del defustellatore di scatolette. Poi il gioco mi ha preso la mano ed é diventato l'occasione di chiarire anche a me stessa quel groviglio di sentimenti confusi che talvolta ti lascia incerta e smarrita e non sai se sei più stanca o soddisfatta o avvilita o felice.
Tuttavia, quando le parole emergono dal magma indistinto della mente e si snodano nitide sullo schermo, una dietro l'altra trovano il ritmo giusto che non sembravano avere nell'accavallamento dei pensieri, e le vedi lì, nero su bianco, raggiungi una specie di quiete, come se fossi riuscita a dare un ordine al cosmo e finalmente ogni cosa fosse andata al suo posto e avesse acquisito un senso compiuto.
All'inizio mi preoccupavo moltissimo se quello che raccontavo potesse piacere  o interessare: con fatica e dolore ho capito che ciascuno di noi é pieno di limiti e difetti, e il mio lavoro non fa certo eccezione.
Sicuramente non é un capolavoro e non supererà il giudizio implacabile del tempo, ma può regalare un minuto piacevole, uno spunto di riflessione, un attimo di comunione, un microscopico punto di contatto col mondo, un filo sottile e tenace che può offrire un sorriso a chi ne ha bisogno

domenica 18 dicembre 2016

Giovedì mattina

Tanto per cambiare sono in ritardo.
Il rito mattutino della vignetta ad amici, colleghi e clienti diventa ogni giorno più impegnativo. È un bel momento, che almeno io vivo con molto piacere, così come mi piacciono molto le due chiacchiere o i saluti con cui iniziamo la giornata: é bello sapere che ci siamo, un buongiorno o un emoticon e la giornata si riempie di presenze confortanti.
La realtà virtuale non é meno reale della vita vera, amplifica solo il segnale, ma gli individui sono e rimangono sempre quello che sono: ci sono persone educate, sensibili, spiritose, aggressive, arroganti, presuntuose, pavide, spaventate, insicure. Il più il web ha un'enorme vantaggio: con un'emoticon, un saluto, una vignetta ti fa sapere che ci sono, sono qui e se hai bisogno di me eccomi, ma mi permette di incastrarti in una giornata frenetica, in cui non avrei proprio il tempo di chiamarti e fare due parole di persona. Però ci sono, non mi sono dimenticata di te, non sono sparita dalla tua vita: se tu hai bisogno o se io ho bisogno di te siamo entrambi legati da questo momento speciale che ci ricorda la nostra presenza reciproca.
Intanto, però, sono in ritardo ed é meglio che mi sbrighi.
Anche l'idea di attivare un servizio di whats.App della farmacia si é rivelato vincente. Peccato che si sia sovrapposto al normale telefono, per cui adesso abbiamo due telefoni che squillano continuamente e la poveretta che avevo destinato alla gestione di questo servizio si trova a giostrarsi continuamente fra l'uno e l'altro con crisi relative nonché momenti di grande confusione e puro sconforto.
E delle comunicazioni fra noi ne vogliamo parlare? Tutte le mattine che Dio manda in terra partiamo armate delle migliori intenzioni: tutti devono sapere tutto,messaggi, post it, poco ci manca che attiviamo un araldo per avvertire di quanti sospiri emettiamo al minuto. Poi, non si sa come, la giornata ci travolge, impegni pressioni scadenze ci trascinano in un vortice nel quale ci dimentichiamo anche di respirare. Non é colpa di nessuno, o forse è solo colpa mia che non riesco ad imporre un ritmo accettabile al lavoro di tutte, non sono capace di rallentare l'effetto domino con il quale la pressione su di una finisce per diventare un buco nero per tutte.
Ogni giorno ricomincia la sfida e ogni giorno qualche incidente frena la nostra corsa verso un vero progresso. Stai provando a confortare una signora il cui marito si è improvvisamente aggravato e senti la collega che deve calmare un cliente che protesta perché il corriere che deve consegnare il suo integratore  é in ritardo per la nebbia; stai aspettando che un medico ti invii la ricetta di un antibiotico e devi far fronte alle rivendicazioni di un avvocato che sostiene che siccome ha sempre la ricetta, questa volta potrebbe anche esserne esentato, che lui ha fretta e non può aspettare, e fa la voce grossa con la più giovane di noi cercando di intimorirla; dai fondo a tutta la tua eloquenza per convincere una ragazzina a parlare con il medico del suo problema e ti senti obiettare che l'ultima volta che c'è stata si è sentita rispondere di cambiare farmacia perché per un banale collirio cortisonico non era il caso di scomodare  proprio lui.
Che dire? È il nostro lavoro, é la vita.
Mentre sto per cedere allo sconforto mi consegnano una stella di Natale gigantesca. L'accompagna un semplice biglietto di ringraziamento senza firma.
Sul cellulare ho cinque messaggi che mi aspettano. Quattro sono buffi pupazzetti di colleghi nelle stesse condizioni che mi invitano a tenere duro. Nel quinto, un paziente mi comunica che finalmente la terapia che gli abbiamo allestito comincia a funzionare: sono andato a ritirare le analisi, emoglobina glicata nella norma, dottoressa, é la prima volta, anche il medico mi ha chiesto che cosa é successo. Gli ho detto che i miei farmaci me li sistemate voi e adesso non mi dimentico più e li prendo bene. Sono già pronti quelli per il mese prossimo? Passerei fra dieci minuti a ritirarli.......
Tutte pronte per una nuova magia?

domenica 11 dicembre 2016

Mercoledì pomeriggio

È inutile che ci raccontiamo delle storie, siamo euforiche e completamente nel pallone. Vaghiamo per la farmacia con un sorriso beato stampato in faccia e continuiamo a congratularci reciprocamente per l'inaspettato successo.
Probabilmente chi ci vede pensa che, come minimo, siamo un po' esaltate e un po' sceme, e forse un tantino fuori di testa lo siamo davvero: quello di cui moltissimi non si rendono conto  non é tanto del lavoro e dell'impegno che certe scelte implicano, quanto di quanto sia difficile e complesso guadagnarsi credibilità e la fiducia dei pazienti.
"E che ci vuole? Si trovano tutto pronto, la terapia completamente organizzata e per di più senza sborsare un centesimo. Saranno tutti entusiasti"
E invece no, non é così semplice: intanto pochissimi accettano facilmente di farsi aiutare, anche quando devono seguire terapie che sono molto complesse da preparare anche per noi del mestiere.Sembra loro di riconoscere che non sono più capaci di gestirsi da soli.
D'altra parte, negli ultimi cinquant'anni, il cliente si é abituato ad uscire dalla farmacia con borse piene di scatolette e ad arrangiarsi. A mala pena, la prima volta, viene scarabocchiato sulle confezioni  un abbozzo di posologia, spesso in una lingua misteriosa, 1 cps 3 vol al dí, e ammettere "non ho capito" sembra brutto, tanto poi a casa ci guardo, leggo il bugiardino e decido cosa fare. E poi " il medico mi ha detto, ma lo specialista invece ha indicato, l'infermiera si é raccomandata e io mi ricordo tutto, almeno mi sembra, tanto poi guardo  su internet...."
"Al farmacista importa solo vendermi i farmaci, riempie il sacchetto veloce, c'é sempre una coda infinita, e poi se gli dico che ho guardato su Google e sono molto perplessa per quello che mi é stato prescritto, si offende e mi risponde sgarbato che sulla ricetta non c'è scritto niente, che chieda al mio medico se non mi fido. Mi sono anche accorta che se dico delle sciocchezze, perché io di queste cose non me ne intendo molto, fa un sorrisino sprezzante e sono sicura che quando esco poi mi prende in giro. Cosa vuoi che ne sappiano questi? Cosa vuoi che gliene importi di me? Preferiscono offrirmi un trattamento nella cabina estetica o un aggeggio super tecnologico che mi intimorisce solo a parlarne".
"Queste qui, invece, quante storie fanno! Mi chiedono la ricetta per tutto, vogliono controllare ogni cosa, i dosaggi e come e quando prendo le mie medicine, sembra che quello che vendono loro siano tutti veleni. So benissimo che cosa devo o non devo fare, non sono mica una drogata, io: anche il medico si fida di me, lo sa che me ne intendo abbastanza, spesso mi prescrive le medicine per telefono e mi dice di regolarmi da sola, tanto sono cose leggere, una più o una meno non cambia niente. Queste invece vogliono controllare tutto, sapere esattamente cosa prendo e quando, ma saprò ben io come sto e come mi devo curare. Non sono diventata così rincretinita da non sapermi arrangiare da sola. Anzi, qualche volta ho fatto meglio del dottore, me lo dice sempre la mia amica: siamo meglio dei dottori, perché ci informiamo, ci ascoltiamo e ci vogliamo bene. I dottori e i farmacisti, invece, pensano solo a farsi pagare, neppure ti ascoltano, se hai bisogno non ne parliamo. Li cerchi al telefono e ti vogliono vedere di persona, ci vai e ti tocca aspettare e poi in due minuti ti liquidano. Le volte che ho chiesto qualcosa mi hanno a mala pena risposto, mi hanno visto col braccio al collo e non mi hanno chiesto neppure come stavo. Figurati se hanno tempo per occuparsi di me e dei miei problemi."
"La sorella della mia amica, mi ha detto, però, che da quando queste qui si occupano della sua mamma, lei sta molto meglio. La badante all'inizio ha fatto un sacco di storie perché non voleva avere le medicine contate, ma poi, quando ha visto che finalmente le analisi si erano sistemate, si é convinta che forse avevano ragione loro. Pensa che in ospedale hanno fatto anche i complimenti alla farmacia per il lavoro che svolge. Mi hanno detto che hanno ricevuto anche il  benestare e i complimenti  dell'Asl. Che dici? Ci provo? Ho la pressione sempre un po' ballerina, il diabete così così, é la menopausa, non c'è dubbio, é l'età, me lo dicono tutti. Che faccio? Ci provo? Mi faccio aiutare?"

domenica 4 dicembre 2016

Mercoledì mattina

Siamo quasi a metà settimana. Non che voglia dire qualcosa, come se problemi guai e complicazioni guardassero il calendario, ma avere una meta, un fine, un limite al quale tendere aiuta ad affrontare meglio le giornate. Il fatto che poi tanto tutto ricominci é un dettaglio, anche abbastanza insignificante. Intanto un lavoro l'abbiamo concluso, una settimana terminata, un obiettivo raggiunto. Ai prossimi ci penseremo.
Metà settimana: appello dei pazienti cronici, chi ci ha già portato i farmaci e le terapie, chi non risponde al telefono, chi non ha voglia di passare dal medico, chi non si é reso conto che é ora di farsi rivedere perché sta finendo le medicine.
Sono in mezzo a due fronti: da una parte ci siamo noi che ci arrabattiamo ad organizzare un lavoro che diventa ogni giorno più impegnativo e più complesso. In certi momenti sembriamo invasate: chi al banco, chi al telefono, cerchiamo di ricordare che il tempo stringe, che la preparazione é lunga e prevede varie fasi, che se ci riduciamo all'ultimo momento é difficile accontentare tutti, venire incontro alle varie esigenze, organizzare un servizio soddisfacente.
Dall'altra, i pazienti che non si rendono conto del fatto che ci occupiamo di un sacco di persone, che tutto deve seguire un protocollo rigidissimo, che ogni modifica, ogni cambio di terapia comporta fare e rifare lo stesso lavoro, rallentando e complicando ogni cosa.
Dopo lunghe e penose riflessioni, sono giunta alla conclusione che abbiamo un enorme problema di comunicazione: quando parliamo diamo sempre troppe cose per scontate, ciascuno di noi non si rende conto che l'interlocutore non conosce la maggior parte di quello che per noi é ovvio e scontato, gli equivoci e i malintesi si sprecano.
E la voce, il modo di parlare, il timbro: la nostra ansia diventa un modo troppo brusco di parlare, la difficoltà nel farsi capire aumenta i toni aspri e acuti, la timidezza si trasforma in rigidezza e brontolio a mezza voce. Chi ascolta spesso finisce per annuire senza aver realmente compreso, lo sguardo sfuggente e smarrito frammisto a dubbi mal formulati, a domande taciute per confusione e incertezza.
Un disastro: ciascuno si arrocca nelle sue convinzioni e il dialogo sprofonda in una palude di diffidenza reciproca.
Intanto il tempo, del tutto impermeabile alle umane debolezze, non guarda in faccia nessuno e continua a scorrere con implacabile metodicità.
Ad intervalli regolari, qualcuno viene a chiedermi lumi o istruzioni come se fossi depositaria di ogni conoscenza. Spesso le devo riprendere, non perché non siano bravissime e non ci mettano l'anima, ma perché non si rendono proprio conto di come talvolta non riescano a farsi capire, di non stancarsi mai di dare l'ennesimo chiarimento, l'ennesima spiegazione, di accompagnare sempre tutto con un sorriso per stemperare ed alleggerire la difficoltà di comunicazione.
Ed ecco il dramma: una cliente chiede di parlare proprio con me. Mi avvisano tese, la preoccupazione di avere commesso un errore, di avere detto o fatto la cosa sbagliata, il bisogno di giustificarsi a priori espresso col tono della recriminazione e della lamentela.
Lascio quello che stavo facendo, faccio un respiro profondo e mi preparo ad affrontare l'ennesimo problema della giornata, forse il più delicato.
"Sono venuta a ritirare i farmaci della mamma". Non sono ancora pronti, é solo mercoledì, abbiamo di nuovo confuso le date di consegna? Eppure, ultimamente, eravamo diventate bravissime, questo errore non lo avevamo più fatto...
Tra panico ed imbarazzo, cerco di inventarmi una soluzione estemporanea.
"Non si preoccupi, lo so che non sono ancora pronti. È che, per il momento, non mi servono più: la mia mamma é in ospedale. Anzi, sono venuta a ringraziarvi: é viva e sta bene grazie a voi. Tre giorni fa é caduta in casa e ha battuto la testa molto forte: la badante l'ha accompagnata in ospedale con la vostra cartella dei farmaci. I medici hanno potuto vedere tutta la terapia che segue e che cosa aveva preso e quando: così sono potuti intervenire immediatamente visto che si era procurata un grave trauma cranico. Hanno detto che il vostro lavoro ha fatto loro guadagnare tempo prezioso e che oggi è in buone condizioni anche grazie a voi. I medici del pronto soccorso vi fanno i loro complimenti. Vi ringrazio anche a nome della mia mamma."
Cerchiamo di nascondere l'emozione, ma non riusciamo neppure a parlare


domenica 20 novembre 2016

Martedì pomeriggio

È solo martedì pomeriggio e sono già esausta.
Se c'è una categoria di persone che invidio con tutta l'anima è quella di coloro che sono calmi, organizzati, metodici. Quelli, per intenderci, che fanno una cosa per volta, pensano una cosa per volta, progettano una cosa per volta. Come li invidio! Quelli che non urlano, non si agitano, non si arrabbiano, non scialacquano enormi quantità di energie emotive, non si tormentano fra dubbi e dilemmi assurdi, non si fanno domande a raffica senza trovare mai risposte soddisfacenti.
Io, dentro, ho un caos inenarrabile. Anche fuori, se é per questo.
È che ci sarebbero talmente tante cose da fare, da cambiare, da migliorare, da perfezionare. C'è un mondo, lá fuori, che ha bisogno di noi, ha bisogno di idee, soluzioni, proposte; forse neppure lo sa, ma gli serve un buon farmacista, eccome. E noi stiamo qui, a perdere tempo prezioso, a lamentarci e a rimpiangere un tempo lontano in cui ci ricordiamo ricchi e felici, e invece eravamo solo degli automi frustrati.
Ieri sera un mio amico, una delle mie spalle su cui piangere virtuali, mi ha strapazzato ben bene invitandomi 1) a darmi una calmata; 2) a decidere di che cosa non occuparmi; 3) ad affrontare un problema alla volta; 4) ad avere un po' di pietà per quelli che mi stanno vicino.
A parte il fatto che avrei voluto ridiscutere il concetto e la funzione di "spalla su cui piangere" (mi piacerebbe proprio che qualcuno, almeno di tanto in tanto, mi sommergesse di tutte quelle frasi stupide e consolatorie, da telefilm pomeridiano di serie B, tipo "poverina, non te la prendere, non é colpa tua, é il mondo che é cattivo, su su, vedrai che andrà tutto bene, alla fine i cattivi hanno sempre la peggio, noi siamo i buoni e, prima o poi, c'è la faremo, vedrai, stai tranquilla",  invece di rimprendermi subito con decisione), ne é scaturrita una discussione accesissima sul fatto che é molto faticoso  essermi amico anche da debita distanza.
Fantastico, proprio quello che mi ci voleva.
Così poi mi sono sentita anche in colpa perché rompo le scatole a lui e ad altri molto più spesso di quanto sarebbe auspicabile, cercando una  consolazione che poi non accetto, consigli che non seguo, finendo per tormentare chi magari ha già un sacco di problemi più grossi di suo e farebbe volentieri a meno di ascoltare una pazza isterica piena di contraddizioni e complicazioni inutili.
Nel frattempo analizzo mentalmente tutte quelle cose su cui devo intervenire nel più breve tempo possibile per ottimizzare il lavoro di tutte noi: abbiamo ancora troppi intoppi pratici che ci impediscono di operare al meglio delle nostre possibilità. Sono tutte cose stupide, che apparentemente sembrano essere superabili senza grosse difficoltà, ma che sospetto essere più ostiche di quello che sembrano.
Abbiamo assolutamente bisogno di osservare una procedura rigorosa per l'organizzazione del lavoro al banco: poche regole semplici ma ferree per fare in modo che ciascuno di noi possa parlare con il suo cliente in tranquillità, rispettando al massimo la privacy, sapendo che se la farmacia si dovesse riempire, interverranno prontamente le colleghe in aiuto.
Dobbiamo trovare un sistema che ci permetta di comunicare più facilmente fra noi: adesso é diventato veramente troppo complicato chiamarsi da una parte all'altra della farmacia. Ci vorrebbe qualcosa tipo un cercapersone, ma non ho ancora visto nulla di semplice pratico e discreto. Devo cercare con più cura l'oggetto più adatto per noi.
E la ricerca dei farmaci contingentati? E quelli in sospeso? L'idea di metterli nelle scatole é stata buona davvero, ma abbiamo ancora delle difficoltà con i tempi di consegna. Ripristiniamo il sistema dei messaggi telefonici per segnalarne l'effettiva presenza in farmacia? L'avevamo abbandonato perché un cliente non l'aveva gradito, ma forse ora é giunto il momento di riattivarlo....
Si fa presto a dire: fai buona buona il tuo lavoro, fai del tuo meglio e mettiti tranquilla.
E tutto il testo? Chi ci deve pensare? Che cosa significa fare del proprio meglio?
Hai voglia a non pensare. E poi non basta pensare. Bisogna anche fare: spiegare, eseguire, controllare, correggere, migliorare e perfezionare.
Mi sta riassalendo la voglia irrefrenabile di disperarmi: prima di mietere un'altra vittima innocente travolgendola con un mare di sterili lamentele, chiudo la giornata e spengo il telefono e il computer.
È meglio se ci pensiamo domani




domenica 13 novembre 2016

Martedì mattina

Il lunedì in qualche maniera è passato, il ritardo accumulato ormai è stratosferico e l'ansia sta raggiungendo vette insospettabili. Va bene, oggi è un altro giorno e sarà sicuramente facile, proficuo e meraviglioso. Almeno, lo spero e ci conto.
Adesso mi chiudo in laboratorio e ne esco solo nel caso in cui sia scoppiato un incendio e le fiamme abbiano invaso almeno la metà della farmacia. Lo giuro.
Entro di soppiatto, afferrò la cartella in cui riponiamo le ricette e cerco di eclissarmi nel modo più rapido possibile. Sembra facile.
E lo è, basta volerlo. Mi chiudo la porta e faccio finta di non sentire i "ti dobbiamo parlare"  che mi aleggiano alle spalle. Dopo, dopo, dopo. Dopo, quando? Nella prossima vita. E in questa? Alle 12:00 in punto concederò udienza a tutti. Neppure un minuto prima.
Comincio ad organizzare il lavoro, stilo la lista delle priorità cercando di controllare il panico e la prima delle mie collaboratrici è già davanti alla mia porta che mi fa cenni disperati. Perché ho voluto proprio mettere vetro trasparente alle porte?  Meglio morire di claustrofobia che questo continuo stillicidio.
I cenni diventano sempre più frenetici: di là mi sta aspettando la signora Gina, novantaquattro primavere, molto più lucida e in gamba di me, ha bisogno di parlarmi immediatamente, subito, adesso. Mi faccio spiegare che cosa è successo, ma nessuno sembra averlo capito con esattezza.
Vi prego, vi scongiuro, non se ne può occupare qualcun altra? Abbiate pietà, ma così non riesco a combinare niente. Peggio: corro il serissimo rischio di fare enormi pasticci.
Sono disperata e vicina alle lacrime.
Evidentemente devo essere stata estremamente convincente perché si attivano tutte per arginare il problema e mi regalano un'ora di quiete.
Finalmente riesco  a lavorare tranquilla e questo mi sembra un vero miracolo: ne approfitto al massimo e porto a termine almeno le cose più importanti.
Sono le 12:00 in punto e ancora tutto tace: sono quasi preoccupata. Che siano tutti morti senza neppure avvertirmi?
Mi avventuro fuori dal laboratorio un po' intimorita; apro la porta con cautela e sbircio all'interno.
La signora Gina è seduta vicino al mio computer; è sul sentiero di guerra e mi sta palesemente aspettando.
Mi faccio coraggio ed entro decisa.
Le hanno offerto una tisana, hanno provato a parlarci, ma niente, vuole me e non se ne andrà finché non sarà riuscita a vedermi.
Ora, bisogna sapere che questo scricciolo di donna, secca e dura come un vecchio ramo d'ulivo è una persona meravigliosa che ha trascorso tutta la vita accudendo i suoi familiari e facendo una vita quasi da reclusa: vive da sola, indipendente e orgogliosa, fragile e vulnerabile come solo certe persone apparentemente scontrose sanno essere. Con un nipote che abita lontano condivido una specie di affido congiunto: in caso di problemi io sono molto più facilmente raggiungibile di lui, e poi  la conosco da quando ero bambina, mi vuole un bene dell'anima e con tutte le preghiere che mi dedica ogni giorno posso vivere di rendita per il resto della vita.
L'unica difficoltà sta nel fatto che è permalosissima ed è capace di ombrosità tortuose quanto misteriose. Vediamo qual è il dramma di oggi.
Pare che sia scoppiata una guerra senza esclusione di colpi con un'altra signora per chi mette il mazzetto di fiori più vicino alla statua della Madonnina in fondo alla strada: ognuna delle due sposta il mazzetto dell'altra più lontano, ma noi, non avendo le chiavi della grata di protezione, subiamo la sorte peggiore e il nostro mazzetto, molto più bello dell'altro, finisce sempre relegato in un angolo.
È un bel problema, ma ho un lampo di genio. Mio padre aveva le chiavi della grata perché finché ha potuto farlo, teneva in ordine il capitello.  Chissà dove saranno andate a finire.
Ho nascosto il suo vecchio mazzo di chiavi in fondo ad un cassetto:  rivederlo mi mette una tristezza infinita. Le perdeva continuamente; mi rivengono in mente le migliaia di volte in cui le cercava disperato e mi viene un nodo alla gola.
Un piccolo miracolo, secondo me, me lo merito: al quinto tentativo l'odiata grata si apre. Sistemiamo i fiori nel punto migliore, puliamo tutto per bene, anche il cero è adesso al suo posto.
Ci vuole un abbraccio, stretto stretto, di quelli che ti scaldano il cuore.






domenica 6 novembre 2016

Lunedì, il pomeriggio

Mangio in piedi, di corsa, come quasi tutti i giorni. Quando c'era mio padre, oltre a chiedermi alla mattina presto che cosa volessi mangiare (come se io lo avessi saputo! Iniziavamo  tutte le mattine con una discussione su quanto fosse difficile accudirmi ed accontentarmi. Io rispondevo che mi andava bene tutto, basta che non mi chiedesse niente, perché alle otto del mattino non c'è assolutamente niente che mi faccia gola. Lui rispondeva che ero un essere impossibile: quanto mi mancano adesso quelle schermaglie), mi costringeva a pranzo a sedermi e a mangiare "da cristiani". Da quando non c'é più non ho più toccato un piatto di pasta né ho più pranzato seduta.
Ho almeno tre pagine di e-mail a cui rispondere, tutto quello che non ho fatto questa mattina incombe minaccioso e devo prepararmi ad affrontare le mie signore. Non so cosa  sia peggio:  l'idea di prendermi un anno sabbatico si fa sempre più allettante, ma mi viene anche da ridere.
Ecco, é questo che mi rovina: nei momenti meno opportuni, quando dovrei essere concentrata, saggia, equilibrata, quando dovrei dare il meglio di me, improvvisamente, mi sembra tutto così comico e non riesco a rimanere seria.. Mi metto a ridere da sola, come una scema.
Devo tentare di fare qualcosa di utile almeno prima dell'apertura pomeridiana.
Non facciamo in tempo a sollevare la saracinesca che sono già tutte qui, in formazione compatta, con l'aggiunta della figlia della vicina nella veste di aspirante assistente mediatore, in caso ne avessi bisogno.
La vivacità e l'energia di tutte loro mi rassicurano definitivamente sullo  stato di salute generale. Qualunque cosa sia successo non ha inficiato minimamente le loro forze, anzi, oserei quasi dire che mi sembrano in forma smagliante.
Bene, cerchiamo di capirci qualcosa. Le interrogo separatamente o insieme?
Non so perché mi pongo tanti problemi: hanno già fatto tutto loro, si sono sedute belle comode in cerchio e hanno dato il via ad una discussione animatissima di cui mi hanno eletto arbitro e giudice.
Il mio ego é alle stelle: mi sembra di essere ad una puntata di "Forum", versione live, e io mi sento a metà fra Zeus e una presentatrice di talk show: comincio a capire il delirio da onnipotenza,
Il clima si surriscalda sempre di più: adesso stiamo rivangando questioni che risalgono almeno a tre generazioni fa e a persone morte da almeno un secolo, con una fantasia di argomenti da far invidia alla più torbida soap opera. Ho tutti i muscoli del viso indolenziti dallo sforzo di rimanere seria e mantenere un'espressione severa e compassata, adeguata al ruolo.
La babele linguistica mi sta creando delle difficoltà di comprensione: non parlo (e non capisco molto bene) il dialetto, le badanti sono straniere, l'italiano é sempre più  sommario e creativo. Secondo me, sto anche diventando mezza sorda (o lo sono già completamente, come non mancano mai di sottolineare i miei figli), ma forse sono solo affetta da sordità selettiva: in realtà, mi sono estraniata a notare come, in fondo, le parole siano solo uno degli strumenti di comunicazione, e neanche uno dei più importanti. I loro corpi e i loro gesti raccontano una storia molto più complicata, fatta di tanta solitudine, condita di pregiudizi e paure, disseminata di gelosie, ripicche, dispetti, misconosciute richieste di affetto, bisogno spasmodico e contraddittorio di attenzione e ruvida gentilezza.
Improvvisamente si azzittiscono, mi guardano e mi costringono a ridiscendere  precipitosamente dall'empireo nel quale mi sono rifugiata.
"Carissime Signore, oggi ho fatto delle analisi molto approfondite sul bicchiere che mi avete portato e sul suo contenuto: mi sento di poter garantire che tutte le compresse che mancano sono ancora lì dentro e non é stato ingerito niente (siamo onesti: chi avrebbe mai avuto il coraggio di bere quella poltiglia immonda?) per cui escludo qualunque tentativo di suicidio e/o omicidio (senza una pistola carica alla tempia mi sembra alquanto improbabile costringere qualcuno a berla, per cui possiamo lasciare in pace Miss Marple). Sono sicura (ma dove le prendo certe affermazioni!) che la signora Bice, a casa da sola, abbia soltanto voluto vedere se le compresse si sciolgono nell'acqua, visto che fa abbastanza fatica a deglutire intere.  È stato un esperimento molto utile: adesso sappiamo che si sciolgono, per cui potrà decidere se preferisce prenderle così o intere. Anzi, vi ringrazio tutte perché questo può servire anche per altri miei clienti e sarò molto felice di diffondere l'informazione.
Nel frattempo, mi é venuta un'idea:perché una volta alle settimana non organizzate un pranzo tutte assieme? Giusto per passare qualche ora in compagnia con le amiche?"
Se gli sguardi potessero uccidere sarei già morta in un mare di sangue.
"Potremmo fare i tortellini..." "E le lasagne?" "Anche se non é Natale?"
Sia lodato il dio della cucina: per noi il cibo é come il tempo per gli inglesi, argomento buono per tutte le circostanze e per tutte le stagioni.
E adesso come lo recupero tutto il tempo che ho perduto? E le energie? Sono sfinita, euforica, deconcentrata, con l'ego ipertrofico che mi deborda anche dalle orecchie, la voglia di un anno sabbatico sempre più impellente.
Come diceva mio padre, qui ci vuole un ricco caffè

domenica 30 ottobre 2016

Lunedì, la mattina

Il lunedì é sempre una giornata difficile.
Intanto viene dopo la domenica, e già questo, di per sé, é un piccolo trauma. Benedetta domenica: dovrebbe servire per riposare e per smaltire almeno una parte del lavoro arretrato e  invece passa in un battibaleno avendo combinato poco o niente di utile e l'essersi stressati inutilmente per non aver concluso nulla di buono. Un disastro.
Ti svegli prima dell'alba e la prima cosa a cui pensi é che hai davanti un'intera settimana da affrontare, sette giorni infiniti con infiniti e fantasiosi problemi che ti aspettano e non sei tanto sicura di potercela fare. Poi ti prende il panico, appena ti ricordi delle innumerevoli cose da fare, che hai tralasciato o non hai terminato o hai accantonato, e ti sembra che il tempo sia pochissimo per stiparci dentro tutti gli impegni che ti sei assunta del tutto avventatamente e imprudentemente.
Indecisa se essere più spaventata per l'eternità da attraversare o più preoccupata per il tempo che si comprime e sparisce sotto i tuoi occhi, decidi che tanto vale alzarsi e iniziare a fare qualcosa.
Il primo caffè del mattino, al buio, in silenzio; la prima luce del giorno che invade la cucina e ti riporta alla realtà: partenza, pronti, via. Buongiorno, la nuova settimana é ufficialmente iniziata.
Sono già in ritardo, su tutto. La cosa bella é che ho già ampiamente superato il problema dell'infinito che mi aspetta rincorrendo come una disperata ogni secondo che perdo. Se non altro la mia ansia perenne ha preso una direzione precisa. Ordine, chiarezza e coerenza, non chiedo altro.
Appena metto piede in farmacia, ancora il camice in mano, insieme a tutto il variegato quanto indispensabile contenuto delle mie tasche, nel tragitto dalla porta alla mia agenda (due metri scarsi) mi fermano almeno in quattro, ciascuno con un quesito stravagante, urgente, improcrastinabile da sottopormi immediatamente. Ognuno ha il suo metodo e stile: c'é chi mi guarda e con finta aria contrita sussurra che lo sa che non é il momento, ma....Chi é pronta con l'elenco delle telefonate e delle persone che mi hanno cercata come una perfetta segretaria efficiente e dispiaciuta quanto basta; chi non si fa tanti scrupoli e spara quesiti a bruciapelo come se introducesse gettoni in una macchina; chi cerca di incuriosirmi anticipandomi pettegolezzi succulenti...
L'idea é di agguantare l'agenda e nascondermi in laboratorio, ma é una vana speranza.
Mentre cerco di dribblare le domande più spinose e rinviare le decisioni meno impellenti, i telefoni non hanno pace e non sono ancora riuscita ad organizzare la mia giornata.
Non sono ancora le dieci e sono già esaurita.
Ieri un'amica mi ha raccontato che da quando ha imparato a prendere le cose come vengono, senza forzarle e senza appesantirsi di milioni di domande inutili, così con semplicità, senza troppe aspettative, la vita é diventata più leggera e soddisfacente. L'ho ascoltata con interesse e curiosità, ma mentre parlava nella mia testa le domande da milioni erano diventate miliardi, con tanto di tesi, antitesi e sintesi. Forse per certe cose bisogna esserci tagliate: io non solo non ci sono nata, ma per tutta la vita ho coltivato l'arte del dubbio e mi sono specializzata nell'analisi infinitesimale di ogni questione. Ammiro sinceramente chi é in grado di comportarsi con tanta semplicità, l'ammiro e la invidio con tutta l'anima, ma io non ne sono capace.
Mi ha fatto anche notare che inizio moltissime risposte con il no, cioè non sono quasi mai d'accordo con il mio interlocutore: é vero, non ci avevo mai fatto caso prima, ma devo riconoscere che é vero. Fra gli altri difetti ho anche un insopprimibile vocazione alla minoranza e alle cause perse.
Raggiungo finalmente la mia scrivania e l'agenda, determinata a riprendere saldamente le redini del mio destino: mi siedo, catturo al volo una penna e mi accingo finalmente a pianificare la settimana.
Sto ancora raccogliendo le idee e la prima vera emergenza irrompe come una slavina: una badante si è accorta che la sua assistita, lasciata sola per qualche ora, ha sciolto in un bicchiere la metà dei farmaci preparati per tutta la settimana e teme che ne abbia ingerito una parte. Sono tutti qui: la badante, la sua assistita, il bicchiere incriminato con la sua mistura immonda, la cartella dei farmaci, la vicina di casa che le ha accompagnate in macchina, l'amica della badante come supporto e garanzia.
Dalla vivacità e dall'energia con la quale ciascuna mi offre la sua versione dei fatti e da come si accusano a vicenda delle intenzioni più nefaste, deduco che stiano  tutte bene e non sia successo nulla di grave: il più è cercare di calmarle e capirci qualcosa. Mi viene un'idea brillante: mi faccio lasciare tutto e rimando l'indagine al pomeriggio, promettendo analisi misteriose quanto accurate.
La mattinata è passata, non ho concluso niente di utile e mi aspetta un pomeriggio impegnativo.
Per essere un lunedì, la settimana promette proprio bene


domenica 23 ottobre 2016

Un infuso di calma mattino e sera

Di carattere sono piuttosto fumina. Tradotto per chi non parla il lessico strampalato della mia famiglia: sono spesso esagitata, nevrastenica, concitata, tono di voce con parecchi decibel di troppo, timbro acuto e stridente.
Non si preoccupa mai nessuno. Tanto ormai hanno capito tutti che più urlo e mi agito e meno sono veramente arrabbiata. Non solo, ma con la logica perversa che quasi sempre accompagna il nostro comportamento, è un trattamento che riservo solo alle persone che stimo e a cui voglio bene. È un po' come se, sicura del legame e del rispetto che ci lega, non reputassi necessario adottare modi urbani e distaccati per sostenere le mie opinioni.
Non si preoccupa mai nessuno, dicevo, né tantomeno si offendono o ci rimangono male. Si limitano a guardarmi con aria compassionevole e premurosa, come si guarda una cara vecchia zia nubile, burbera e brontolona, ma a cui si vuole tanto bene lo stesso. È più mi agito e sembro spiritata, è più si godono la scena, si impensieriscono se la voce mi abbandona, mi offrono solleciti acqua o caramelle o supporto morale quando le energie cominciano a scemare e inizio a perdere colpi.
Solo quando sto zitta é un gran brutto segno. La rabbia, quella vera, la delusione, mi seccano la gola, le parole mi escono misurate, pacate, non c'è niente che mi calmi di più della furia più profonda. Quando non vale più la pena di discutere, il silenzio riassume tutte le risposte.
Sono talmente abituata al fatto che nessuno si scomponga più di tanto (per non dire che rimangono assolutamente serafici) che non mi controllo neppure quando potrebbero sentirmi sconosciuti non avezzi alle mie scenografiche esternazioni.
Immaginatevi la scena: zona al pubblico piena (non é difficile visto che in tutto sono circa venti metri quadri). Retro (cioè il magazzino, altrettanto piccolo, direttamente connesso alla zona al pubblico da vani senza porta): io, urlando come una pazza fuori di testa,  cerco di spiegare il concetto e gli ambiti di ogni singolo ruolo lavorativo (cioè che cosa deve fare esattamente) ogni collaboratore. Oggetto di discussione: l'idea di ordine e di razionalizzazione di ogni settore del magazzino.
Già l'argomento é particolarmente ostico (ognuno ha un'idea diversa di ordine), i pregiudizi e i luoghi comuni si sprecano, tutti si sentono chiamati in causa ma non vorrebbero venire direttamente coinvolti, gli sguardi si fanno sempre più vacui e smarriti, la mia voce ha ormai raggiunto il tono isterico di quando non riesco a trasmettere quello che nella mia testa appare talmente evidente da non richiedere ulteriori spiegazioni e invece risulta del tutto incomprensibile a chi ho davanti.
Una delle farmaciste al banco mi si avvicina e mi sussurra dolcemente che sto spaventando una cliente.
Mi nascondo in laboratorio mortificata.
La collega mi raggiunge e mi spiega che la cliente vorrebbe parlarmi, ma é un po' preoccupata per quello che ha sentito.
Vorrei sprofondare nella parte dell'inferno più profonda, il girone degli iracondi non basta. Mi faccio coraggio e vado.
Ci guardiamo, un secondo in silenzio. Non so come scusarmi, le parole non mi escono proprio, per fortuna viene da ridere a tutte e tre. Riesco solo  a biascicare che non sono arrabbiata, mi sento solo incapace di farmi capire e questo mi mette in difficoltà e mi spinge a reazioni eccessive.
"Si, ma c'é modo e modo". È vero: c'è modo e modo. Ci viene di nuovo da ridere.
Ci sono persone che conosci per caso, magari in circostanze poco favorevoli, eppure ti piacciono subito, così, senza una ragione precisa. Poi ci parli, e scopri che sono anche meglio, e per qualche alchimia del destino riesci a comprenderle e a farti capire d'istinto, semplicemente.
Sono i grandi piccoli miracoli che ogni tanto ci vengono donati, nonostante le nostre, troppe, inadeguatezze

domenica 9 ottobre 2016

C'è farmaco e farmaco

Adesso quando mi alzo al mattino è buio.
In cucina, da sola, il primo caffè della giornata, la finestra che piano piano si rischiara su un mondo che fatica a trovare i colori abituali. È il momento più bello della giornata: le ansie che mi hanno svegliata si diluiscono in questa luce timida e fredda e perdono quasi tutta la loro forza.
Un nuovo giorno è iniziato. Chissà come andrà a finire.
Mi ha cercato in un pomeriggio qualunque, nell'ora in cui sono più stanca e vorrei mollare tutto e andarmene a casa. È una signora minuta, la voce bassa e gentile, gli occhi profondi, i modi semplici e signorili.
È venuta per parlare proprio con me e aspetta paziente che mi possa occupare di lei.
Sono già in crisi: tra l'orgoglio di sapere che persone sconosciute mi danno  tanto credito e la paura  di deludere le aspettative sono prossima al panico.
Mi racconta il suo dramma in modo tranquillo, tanto che sul momento faccio fatica a rendermi conto della situazione. Mi racconta dei suoi dieci anni di lotta contro un tumore come se mi descrivesse la cronaca di un tran tran quotidiano, un impiego banale con i suoi alti e bassi continui e scontati.
Sono sempre più in difficoltà: le malattie mi atteriscono e sono sempre più conquistata dalla sua calma. Io, che la calma non so bene neppure dove stia di casa, che vivo lottando continuamente con un caos perenne di pensieri e sentimenti, di fronte a questa piccola signora mi sento del tutto incapace di offrire il più piccolo aiuto.
È venuta per chiedermi informazioni sull'ennesimo rimedio miracoloso proposto come  panacea di tutti i mali dai santoni del web, magica soluzione che ha già guarito milioni di persone senza controindicazioni ed effetti collaterali: desidera conoscere la mia opinione, ma sa già come la penso. Mentre mi affanno a scegliere le parole meno sbagliate per rendere il mio pensiero un po' meno crudele, riesce comunque a rassicurarmi, lei a me, e questo mi fa sentire ancora più inadeguata.
Mi viene in mente uno spot ideato per promuovere la farmacia: la farmacia é l'unico posto sempre aperto dove chiunque può chiedere un consiglio sulla sua salute. Bellissimo. E adesso?
Adesso cosa le dico, cosa faccio? Come me le lo invento un consiglio sensato?
Pesco delle belle goccine prodigiose e confido nell'effetto  placebo buono per tutte le evenienze?
Mi appello al fatto indiscutibile che non sono un medico e mi sottraggo con eleganza (e un po' di sdegno) alla situazione difficile?
Lei ha cercato me, me, in persona. Sa benissimo che non sono un medico, non cercava un medico, ha un oncologo di fiducia che stima e di cui si fida. Sa anche che non mi sostituirei mai ad un medico, non so come ma sembra conoscermi bene.
Ha bisogno di un farmacista. Sembra incredibile, perfino a me che mi ostino a credere che il mondo abbia bisogno di buoni farmacisti, ma cerca proprio un farmacista.
Rendermene conto mi emoziona, ma, nel contempo, mi avvilisce profondamente.
Sono del tutto impotente: per lei non posso fare assolutamente niente. Non posso neppure darle qualche speranza. Non ho miracoli da magnificarle, neppure un piccolo prodigio estemporaneo che tanto male non può fare. Niente.
Posso solo inviarle un mio pensiero ogni mattina, non é molto, non é un gran farmaco, non cura proprio niente. Di più non posso fare, e, se devo essere sincera, forse fa più bene a me che a lei.
Perché anche i farmacisti hanno spesso bisogno di cure.

domenica 2 ottobre 2016

Tra un "posso" e un "vorrei"

È tutto il giorno che provo a scrivere d'altro.
Avrei un sacco di cose da raccontare, ma non mi vengono le parole giuste. Continuo  a sfogliare il dizionario in cerca di termini che sembrano sfuggirmi, ma che, in realtà, non ci sono proprio nella mia testa.
In quel caos infinito di pensieri che mi contraddistingue ce n'è uno che continua a tormentarmi da moltissimo tempo: debbo dargli una forma qualsiasi, o finirà per non darmi pace.
I nuovi laboratori sono finiti e ieri abbiamo fatto una piccola festa di inaugurazione. Nulla di particolare: quattro dolcetti, un po' di spumante e le persone più care a condividere il  nostro momento felice.
Un anno e nove mesi di lavori, rumore polvere sporco, disagi di tutti i generi, non abbiamo mai chiuso neppure per un giorno. Progetti, discussioni, preventivi, discussioni, intoppi, analisi, rianalisi, verifiche, discussioni, controlli: quasi due anni della mia vita inseguendo un'idea che non sapevo bene neppure come dovesse essere. Sapevo quello che non volevo, e mi sembrava già un buon punto di partenza. Ho imparato abbastanza in fretta che era decisamente poco.
Però avevo un vantaggio: mio figlio ed io in laboratorio ci viviamo e con i rischi e i problemi ci facciamo i conti ogni giorno. Con infinita presunzione ho scartato tutte le proposte delle varie ditte specializzate perché non soddisfacevano del tutto  le mie esigenze e con un gruppo di temerari ci siamo lanciati nell'impresa. Nessuno di noi aveva mai realizzato qualcosa di simile e nessuno sapeva esattamente cosa fare.
Ho toccato con mano l'enorme difficoltà di conciliare il "vorrei" con il "posso", e  ho scoperto con infinito stupore che dal "non posso" e dal "non me lo posso permettere" sono nate le soluzioni migliori e le idee più innovative. Poche cose stimolano la fantasia come ostacoli ed errori.
In questi mesi ho visto la casa in cui sono cresciuta, la casa dei miei genitori, a poco a poco sparire fra calcinacci e nuove pareti: già faccio fatica a ricordarmi l'orribile cucina dove mia madre regnava incontrastata o lo studio dove ho dormito per anni. Il soggiorno a cui era legato tenacemente mio padre, buio e  oberato di mobili scuri, oggi é un ambiente accogliente e pieno di luce; le pareti bianche e di vetro rendono la stanza più grande e gradevole.
Ho invitato alla festa gli amici più cari dei miei genitori: volevo vedessero quello che avevamo creato. Avevo bisogno che mi aiutassero a salutare il passato per accogliere meglio il futuro.
Mio padre non avrebbe mai approvato le mie scelte, né le avrebbe comprese.Le sue argomentazioni sono sempre state razionali, equilibrate, essenzialmente corrette. Mi ha sempre invitato alla prudenza, alla moderazione, al realismo. Fai il meglio che puoi, dove sei, con quello che hai.
Non ne sono stata capace. Ho avuto bisogno di uscire dal mio piccolo mondo per provare a crearne uno più nuovo.
Funzionerà? Non ne ho idea. Ci credo e ci spero. Ma non ne sono sicura. Tutt'altro.
Ho anche molta paura, ma questa é la vita. Fai il meglio che puoi e poi prega.
Me lo immagino, mio padre, lassù, ovunque egli sia, che tormenta mia madre. Tua figlia é una pazza, falla stare tranquilla, chissà cos'altro si inventa. Neppure l'adorato nipote si salva. Tutto figlio di sua madre: prima vuole  fare il chimico a tutti i costi e adesso eccolo lì, pronto a cambiare il mondo come se i chimici contassero veramente qualcosa. O i farmacisti.
Ma voglio pensare che lo dica scoppiando di orgoglio.


domenica 25 settembre 2016

Piazza virtuale

Una delle cose che detesto di più è andare dalla parrucchiera.
Non è per le ragazze del negozio che sono tutte molto carine e gentili. Anzi, spesso e volentieri faccio fare loro tardi: mi dispiace moltissimo, cerco di essere il più veloce e rapida possibile, ma mi prendo sempre all'ultimo nanosecondo.
Quello che mi disturba e trovo insopportabile è stare due ore seduta e ferma mentre avrei altre mille cose da fare più utili e interessanti. Ma tant'è: ho chiesto ai miei figli se fosse arrivata finalmente l'ora di arrendersi alla vecchiaia con una bella crocchia dalle mille sfumature di grigio che non avrebbe richiesto né cure particolari né il frequente intervento di mani esperte. Mia figlia, pragmatica e pratica come sempre, ha liquidato l'argomento con un "sei proprio sicura?". Mio figlio, sarcastico:"ottimo, così se ci fosse ancora qualcuno che possa nutrire  qualche illusione sul fatto che non sei la più sciroccata rompiscatole del pianeta, gli togli  subito qualunque dubbio con un aspetto a metà fra la strega Nocciola e la nonna di Cappuccetto Rosso".
D'accordo, mi arrendo: vado a farmi rendere presentabile. Più che altro,  mi ha terrorizzato il paragone con la nonna di Cappuccetto Rosso, strega ci può anche stare, ma una dolce vecchina in bilico fra candore e incoscienza proprio no.
Ne approfitto per una scorsa veloce alle riviste a disposizione delle clienti e fra un servizio di moda improbabile e un reportage sulle nuove tendenze di stagione (mi sembrano sempre le stesse cose, ma probabilmente sono io che sto diventando veramente troppo difficile e ipercritica) incoccio in un articolo dove si demonizza la diffusione dei vari social, portando ad esempio vari casi di abuso e conseguente alienazione di persone che ne fruivano.
Ho letto e riletto l'articolo più volte. Mi sono anche posta molte domande e le risposte che mi sono data mi hanno lasciato ancora più confusa.
Io uso molto i social. Mi piace parlare con le persone e non mi importa se non ci conosceremo mai di persona. Non mi sembra importate. Ci conosciamo lo stesso. In un modo un po' diverso, con tempi e modalità diverse, ma non meno coinvolgenti.
Ci siamo incontrati per caso, ispirati da qualche dettaglio postato fra tanti, una foto, una frase, un segno che ci ha fatto intuire di avere qualcosa in comune.
Con alcuni condividiamo un lavoro, un'idea di professione che oggi è cambiata e che ha bisogno anche di questi mezzi per esprimersi al meglio. È bello sapere che quando l'ansia e i dubbi ti soffocano puoi trovare qualcuno che ti capisce, a cui non devi spiegare per filo e per segno quello che ti succede, vive ogni giorno il tuo mondo e capisce. Una parola, un commento, io ci sono, se scappi su un'isola deserta vengo con te, aspettami.
Una volta, ad una riunione fra farmacisti, mi misi a discutere con una collega. Mentre parlavamo pensavo a quant'era in gamba e come mi piacesse quello che pensava e come lo diceva. Continuammo a parlare. Dopo due ore, per caso, capimmo che, in realtà, ci frequentavamo e ci stimavamo da tempo in una piazza virtuale.
Qualcuno si illude di apparire diverso da quello che è, di poter mascherare la sua vera natura, di nascondersi dietro l'immagine che preferisce. Si illude. Quello che sei prima o poi si vede, sei forse più nudo  che nel mondo reale, più esposto. Limiti e pregi trovano solo risonanza più ampia.
Il rito più bello? La vignetta o la frase che scelgo ed invio ogni mattina a coloro che mi chiedono un sorriso per iniziare la giornata, un gesto piccino con il quale ci ricordiamo di essere vivi, presenti, pronti a combattere ciascuno la propria battaglia, un pensiero leggero che ti lancia nel giorno che inizia. Ho scoperto che crea dipendenza: una volta tanto, mi sembra un effetto collaterale bellissimo.






























domenica 11 settembre 2016

Cambiano i tempi (parte seconda)

Capita sempre più spesso e tutte le volte è un trauma. Persone che conosci, volti familiari che da un momento all'altro diventano figure misteriose, dall'età contraddittoria e dalla collocazione spazio temporale indefinita.
Ce ne sono di giovani, troppo giovani, se fai un confronto veloce con il tuo codice fiscale.
Molto  egoisticamente cominci a chiederti se tu sarai graziato dalla sorte, se il destino sarà più benigno nei tuoi confronti, perché non sei proprio sicuro se avrai dei familiari così disponibili e  affettuosi da prendersi cura di te se l'Alzheimeir dovesse rapirti e portarti sul suo pianeta impenetrabile.
Sono proprio i familiari i veri eroi di queste situazioni impossibili: non più giovanissimi o con una loro famiglia sulle spalle, soli ad affrontare ogni giorno qualcosa che non capiscono e non si sanno spiegare. Smarriti in una lotta continua e silenziosa nel tentativo di creare una quotidianità normale e rassicurante, ma priva di ogni certezza. Confusi, disorientati, del tutto impreparati a fare i conti con una realtà che di reale ha sempre meno.
Cercano spiegazioni che non hanno avuto il coraggio di chiedere al medico, spaventati dall'inutile allegria di un reparto ospedaliero che di allegro e rassicurante non ha proprio niente. Nessuno è mai veramente pronto ad accettare un verdetto così incomprensibile: tuo padre è lì, davanti a te, lo vedi e lo tocchi, ma non è più lui, qualcosa è entrato nel suo corpo e ne ha fatto una persona diversa. Ci parli e magari ti risponde anche a tono, un secondo dopo la sua voce ti dice parole che sembrano uguali, ma che sono di un altro, di uno sconosciuto con l'aspetto di tuo padre.
Dalla nostra parte del banco la situazione non è affatto facile: nessuno ci prepara ad affrontare certe cose; quando ci laureiamo siamo pieni di informazioni e di belle speranze, ma non abbiamo  assolutamente idea di quello che ci aspetta e non sappiamo mai che cosa fare. Ci hanno parlato di farmaci e di terapie, ma davanti alle più banali delle domande (dottoressa, mi spieghi, che cos'ha mio padre? Guarirà? Come mi devo comportare con lui? È sicura che sia veramente malato, perché quando vuole capisce, capisce anche troppo bene, secondo me, mi prende in giro..) molto spesso riusciamo solo ad abbassare la testa cercando rifugio fra bollini e ricette.
Dove le trovi le parole giuste da dire, e poi chi ti dice che siano quelle giuste? 
Ci sono parole giuste e parole sbagliate?
Io sono una farmacista: non spetta a me. Io vendo medicine: hai la ricetta? Prendo la medicina, stacco  il fustello, due indicazioni generiche su come prenderla, pacchetto e via. Ho fatto il mio lavoro.
Chiedi al medico, allo specialista, all'infermiera, all'assistente sociale, ma non farmi certe domande, non sono io che ti devo rispondere.
Ma tu chiedi a me, insisti, hai bisogno di me, di una mia parola: mi conosci da sempre, con me trovi quel coraggio che ti ha abbandonato con altri.
Vieni, sediamoci e parliamo: raccontami tutto, con calma, non posso fare nulla di concreto per te, ma ti posso ascoltare. Non sono un'esperta, ma provo a spiegarti in modo semplice che cosa sta succedendo a tuo padre. Non è colpa sua e non è colpa tua, è una malattia crudele che te lo sta allontanando, un poco per volta, ogni giorno di più.
 Soffre? Non lo so, però  mi sembra che a suo modo sia sereno.
Capisce quando gli parlo? Non sempre, non ci contare, cerca di avere tanta pazienza, quando puoi assecondalo, mettiti tu al suo livello, non ti aspettare che sia lui a mettersi al tuo. Parlagli sempre con calma, ripeti più volte le stesse cose e non ti spazientire, se puoi, in questo momento potrebbe essere in un suo mondo in cui non lo puoi raggiungere.
È durissima, non ce la faccio più. Hai ragione, è durissima, è una delle cose più difficili che ci può capitare. Cerca di prenderti delle pause, chiedi aiuto a familiari e amici, non isolarti e non vergognarti, hai bisogno di tutto l'aiuto possibile, stai vivendo un'esperienza più grande di te. Non nascondere le tue difficoltà e non aver paura di parlarne.
Posso tornare qui se ho bisogno? Certo, quando vuoi, ti aspetto, così mi racconti come sta andando.
Emergo da questi colloqui svuotata, provata da un senso di impotenza e di frustrazione striscianti.
Mi sa che mi hanno imbrogliato: mi avevano assicurato che fare la farmacista fosse facile.
E pensare che da piccola volevo fare la parrucchiera: chissà se sono ancora in tempo per cambiare lavoro.
Se è troppo tardi, mi rimane sempre la famosa isola deserta

lunedì 22 agosto 2016

Cambiano i tempi (parte prima)

Il primo è stato un signore anziano.
Lo conosco da sempre, da quando ero bambina e passavo i pomeriggi in farmacia con mia madre. Avevo anche un lavoro ed ero regolarmente pagata: mettevo i timbri alle ricette, tre per ricetta (allora erano grandi, azzurre, di un tipo di carta porosa, con in basso tre sezioni che dovevano essere regolarmente timbrate tutte e tre), una lira  a timbro. Sempre una lira costavano anche certe caramelle piccoline di liquirizia, moretti si chiamavano, per cui  tanti timbri tante caramelle.
È sempre stato un ormone grande e grosso, un po' burbero nei modi, ma non sgradevole. La voce profonda, i gesti essenziali di chi è abituato alla fatica fisica e ha imparato ad economizzare le forze.
Da mesi è tormentato da un fastidioso prurito su tutto il corpo che diversi medici non sono riusciti a controllare. Il prurito è un gran brutto sintomo: non mi è sembrato subito strano che ripetesse le stesse cose più e più volte. Mi sono impressionata molto di più quando a cominciato ad agitarsi ed innervosirsi perché non trovava  le banconote giuste nel portafoglio mentre  le aveva davanti.
Poi è stata la volta di una signora, anche questa una vecchissima conoscenza.
La prima volta è entrata lamentandosi che tre mesi prima, aprendo una confezione nuova di un farmaco che usa abitualmente, mancava una compressa. Ora, cercare di capire realmente che cosa è successo in un caso del genere è veramente molto difficile anche quando è appena successo (il blister era intatto, ma vuoto? Poteva trattarsi di una confezione già aperta precedentemente e magari dimenticata? Potrebbe averla aperta il marito? O la figlia?). Dopo tre mesi è praticamente impossibile. Come si fa a ricostruire i fatti? E la confezione, possiamo vederla?
L'ho buttata perché mancava una compressa.
La scatola era danneggiata?
Mancava una compressa.
Una sola?
Non lo so, l'ho buttata perché mancava una compressa.
Certe volte i dialoghi diventano molto difficili, anche se mantengono un apparente filo logico, anche se ci sono delle incongruenze. Sul momento sembrano banali intoppi di comunicazione, come se due persone parlassero nella stessa lingua, ma in tempi e modi diversi. Le parole sono le stesse, ma non i significati. Tantomeno le connessioni logiche e temporali.
Le volte successive le cose hanno preso una piega surreale. Stia attenta, mi dia tutte le mie pastiglie, altrimenti mia figlia si arrabbia! Mi dice che spendo troppi soldi in medicine, allora io non le prendo e le metto via, le nascondo così non le trova nessuno. Non so neanch'io dove sono, ma tranquilla, poi le ricompro e me le conservo così se mi servono le posso sempre andare a cercare.
La voce è leggermente affrettata, la mimica un po' rigida, tutto suggerisce un'impressione di straniamento pur conservando un'apparenza normale, conosciuta, abituale.
Cerchiamo di dominare lo smarrimento ripetendo le stesse cose, quasi con le stesse parole, in toni sempre più alti, come se gridando potessimo capirci di più. Invece lei si spaventa e allora le parliamo dei bellissimi fiori che ha sul balcone, delle surfinie  che quest'anno sono stupende e, piano piano, sembra si stia rasserenando.
E poi c'é la coppia affiatata, sono venuti sempre insieme, da quando lui è andato in pensione danno una mano alla figlia con i due nipotini: sorridenti, in genere con grande orgoglio ci raccontano  subito l'ultima prodezza dei bambini. È da un po' che non li vedo: vuol dire che i piccoli sono stati bene e non hanno avuto bisogno di noi.
Oggi invece il marito è serio, si guarda in giro con aria svagata mentre la moglie non lo perde di vista un'istante. È tesa, stanca, avvilita: mi racconta il loro dramma con voce incolore, cercando con gli occhi il marito come se sperasse che lui, come al solito, possa intervenire invitandola a non fare la solita nonna che parla solo dei nipoti con tutti quelli che incontra.  Lo ha fatto decine di volte e ne abbiamo sempre riso insieme. Oggi no.
Oggi la signora con voce spenta ci dice che adesso ha un altro bambino di cui occuparsi, un bambino grande e grosso, e non sa per quanto tempo ancora riuscirà a farlo. È faticoso. È troppo doloroso e lei comincia a non farcela più.
Cerco qualcosa da dire, ma non mi viene in mente nulla di sensato. Riesco solo a stringerle una mano sperando che il silenzio le dica quello che le parole non possono esprimere.
(Continua...)




lunedì 15 agosto 2016

Mille di questi turni

Il turno mi mette sempre in crisi.
È vero che non è più come una volta quando durava sette giorni e sette notti, ma mi mette in difficoltà lo stesso.
Intanto, sono solo due notti, ma molto più impegnative. Ci sono molte più chiamate, soprattutto dopo la mezzanotte. Vuoi per l'età, vuoi per la paura di non sentire il campanello, faccio una gran fatica a riaddormentarmi, così finisco per dormire pochissimo.
Il giorno, poi, sarebbe bellissimo se si potesse non andare a lavorare: tutti i mesi mi riprometto di non presentarmi neppure in farmacia e tutti i mesi, sistematicamente, ho talmente tanti impegni che finisco per essere occupata tutta la giornata.
Sono le ventidue, fra un cliente e l'altro, seduta al tavolo della cucina, cerco di portare avanti almeno qualcuno dei mille lavori, noiosissimi, che non trovo mai il tempo di fare. Se non approfitto di queste serate infinite in cui devo stare in piedi per forza, la maggior parte delle incombenze burocratiche rimarrebbe inevasa. Il fatto che in tutto ci sia del buono non mi consola per niente. Anzi, se possibile, mi innervosisce ancora di più.
Mi sto perdendo in un mare di carte, l'orecchio teso al campanello, incerta se preferire una chiamata urgente e abbandonare la nave in tempesta o qualche momento di tregua per tentare di ritrovare una rotta qualsiasi,  quando sento un gatto protestare in modo vibrato.
Il suo timbro  è inconfondibile: alzo la testa e me lo trovo davanti, sporco, concitato, esagitato, più brontolone del solito. Manca da casa da quasi un mese, ormai ci eravamo convinti che avesse fatto una brutta fine sotto una macchina. Invece aveva ragione la tesi complottista: è stato rapito e tenuto prigioniero  da un'altra famiglia perché non appare né denutrito né ferito.
E' proprio lui, Molotov detto il Nano, fulvo, bellissimo: ci è comparso dal nulla in giardino una sera d'estate, piccolissimo, nascosto in mezzo alla siepe, deciso a farsi adottare a tutti i costi miagolando senza pace perché capissimo subito di che pasta era fatto. 
Anche adesso non ci sono dubbi sul fatto che sia proprio lui: con dovizia di particolari, il tono perentorio di chi sa di aver ragione, ci spiega che finalmente è riuscito a tornare a casa, ma ha dovuto fare tutto da solo, perché, si sa, come umani siamo piuttosto imbranati e poco fattivi. Non potevamo cercarlo meglio? Si abbandona così, al suo destino, un povero gatto che tanto ha fatto per il benessere della famiglia? E tutte le volte che con la scusa di accettare graziosamente una carezza o un grattino ho offerto conforto a qualche umano depresso? E gli allegri buongiorno alle sei del mattino per una colazione di gruppo, ne vogliamo parlare? Mi avete sostituito con una sveglia? Vi sembra la stessa cosa? Umani, non c'è altro da dire...
Mio figlio ed io siamo emozionati: cerchiamo di capire se sta bene, se è ferito, se ha fame, come mai è così sporco... Mandiamo messaggi a tutti, al resto della famiglia e a Elena, la balia dei gatti, a tutti gli amici e alla maggior parte dei conoscenti, e pazienza se è quasi la mezza, in ogni messaggio una foto, perché sia a tutti ben chiaro che è proprio lui, il Nano è vivo e sta bene, il Nano è tornato.
Alle due, fra messaggi, clienti, carezze, scatolette di tonno, sono stremata: provo a sdraiarmi sul letto e subito Pallo, la gattona matriarca padrona del mio letto e tutrice della mia persona, mette bene in chiaro che neppure il figliol prodigo, neppure in questo felice frangente può derogare dalle regole e stendersi vicino a noi.  Se non ci fosse lei a riportare le cose in ordine, anche qui come umana valgo ben poco...
Ogni venti minuti Molotov mi ricorda con voce stentorea che finalmente è tornato, Pallo lo rimbrotta intimandogli di non avvicinarsi al suo regno, smettetela e fatemi alzare perché il campanello ha suonato. Alle quattro decido che forse il divano potrebbe offrire un compromesso accettabile. Pallo mi si accomoda in braccio, il Nano e il Nanetto ai miei piedi protestano all'unisono appena mi muovo: ragazzi, sono di turno, portate pazienza, ma devo rispondere.
 Questa notte sono felice, neppure le chiamate mi pesano, non mi importa se non sono né urgenti né così necessarie. Vorrei raccontare a chiunque che il mio gatto è di nuovo a casa con noi.
Forse non serve: sono le sei, è ora di colazione, umana, veloce, sbrigati in fretta. Qui c'è gente che ha fame e vorrebbe mangiare


domenica 7 agosto 2016

Stella cadente d'agosto

Il bimbo entra tenuto per mano dalla mamma.
È piccolino, non può avere più di quattro o cinque anni.
Mentre la mamma mi porge la ricetta e mi spiega che cosa le ha detto il medico e di che cosa ha bisogno, si nasconde dietro la gonna di lei.
Il figlio ha un grave problema agli occhi e uno specialista gli ha prescritto un farmaco molto particolare. Sono arrivati da me perché hanno bisogno di un collirio ad una diluizione che non esiste già pronta in commerci  e non ci sono molte farmacie che possono allestire un farmaco di questo genere.
Leggo attentamente la prescrizione e comincio a preoccuparmi: non ho mai fatto niente di simile  e non so se ne sono capace. Evidentemente dal mio viso traspare l'inquietudine che mi sta pervadendo: la mamma mi spiega che l'oculista l'ha indirizzata ad una farmacia di Milano, ma per lei sarebbe una soluzione estremamente scomoda, tanto più che ne avrebbe bisogno di un flacone al mese per un anno.
Mentre parliamo il bimbo si stringe a lei sempre di più, finché lo prende in braccio e lui affonda il visetto nella sua spalla: è spaventato, intimorito dal sospetto di dover subire chissà quali torture. Cerco di rassicurarlo offrendogli un lecca lecca, ma non solleva neppure la testa.
Confesso senza remore i miei dubbi e mi riservo due giorni per decidere cosa sono in grado di fare.
La prima mezza giornata la passo a cercare di dominare il panico: continuo a rivedere il bambino e la sua mamma e mi sento soffocare dall'ansia. Mi tornano in mente i miei figli da piccoli, il terrore con il quale affrontavo ogni loro piccolo disturbo e mi chiedo come avrei reagito se uno di loro avesse avuto un problema veramente serio. Mi ripeto che non è questo il modo di affrontare il lavoro, che devo essere obiettiva e razionale, ma non c'è niente da fare, ormai sono emotivamente coinvolta: li devo aiutare a tutti i costi, non ho idea come, ma devo trovare una soluzione.
Mi attacco al computer e nel giro di un'ora so tutto quello che c'è da sapere sul principio attivo: solubilità, stabilità, interazioni. La concentrazione richiesta è veramente molto bassa per cui mi avventuro in tutta una serie di calcoli per garantire il risultato desiderato.
Adesso siamo alla forma farmaceutica: devo preparare un collirio per un bambino e lo deve usare per molto tempo, non deve bruciare e deve procurargli il minor fastidio possibile. Confronto i vari prodotti in commercio e cerco di capire qual'è il più confortevole.
Mi rimane da conoscere un ultimo dato, il razionale della terapia. Voglio capire se e come funziona, che cosa mi devo aspettare, che margine di errore ho. Consulto tutte le banche dati che ho a disposizione e finalmente trovo il lavoro che mi interessa: da un punto di vista teorico è molto sensata, ma è ancora in fase sperimentale, tuttavia i risultati finora ottenuti sono molto incoraggianti e tutto lascia sperare che il mio bambino (ormai è diventato un po' anche mio) ne possa trarre dei vantaggi concreti. Però devo lavorare in modo ineccepibile perché la concentrazione del farmaco è estremamente  critica per il successo della terapia.
Quattro tentativi dopo, il collirio è pronto: non ho modo di provare il frutto del mio lavoro per cui mi raccomando alla mamma di avvertirmi in caso di qualunque problema o difficoltà.
Una volta al mese, quando consegno il nuovo prodotto, la interrogo con insistenza: ha notato dei miglioramenti? Quando lo usa il bimbo si lamenta? Ha notato nulla di strano, di particolare, di diverso? Gli occhi si arrossano, si irritano? Il bambino è infastidito dall'uso prolungato?
Il piccolo ci ascolta sempre aggrappato alla mamma: non ha avuto particolari problemi, non gli piace il collirio, ma non gli provoca particolare disagio, forse qualche risultato si comincia a vedere, aspettiamo di arrivare almeno a metà terapia.
Dopo quattro mesi gli chiedo se ha voglia di regalarmi un disegno. La mamma lo incoraggia:" lo fai un disegno a questa dottoressa che prepara la medicina per i tuoi occhi?" Cerca di scomparire fra le sue braccia: se potesse, ritornerebbe un tutt'uno con lei.
Mi si stringe il cuore.
Sono passati sei mesi: oggi è venuto con il papà.
Camminano vicini, sembrano allegri e sereni. "Cominciamo a vedere dei risultati"
"Adesso me lo fai un disegno?"
Si avvicina la papà, ma non si nasconde. Con un sorriso mi fa sì con la testa.



domenica 31 luglio 2016

Mission impossible

Finalmente la signora Anna è stata dimessa dall'ospedale ed è tornata a casa.
Per qualche giorno è ospite della figlia: non è ancora sufficientemente autonoma da tornare a vivere da sola.
Sistemata la convalescente  comodamente in poltrona, arriva in farmacia una delegazione agguerrita  di familiari con il foglio di dimissione ospedaliera.
"Abbiamo portato a casa la mamma proprio adesso: questa è la terapia. Il suo medico è in ferie, non riusciamo a trovare il sostituto e noi non ci capiamo niente. Le preparate voi i farmaci come al solito?" Rovesciano sul bancone il sacchetto dei medicinali avanzati prima del ricovero: sventrato, tutte le confezioni aperte e mescolate, blister foglietti illustrativi e scatole in un'unica massa informe.
Mentre cerchiamo di capire che cosa dobbiamo fare, ognuno dice la sua, voci e opinioni si accavallano, il caos regna sovrano.
"Ma come scrivono 'sti medici, non si capisce una parola! Terapia anti ipertensione invariata: questa scritta non c'è su nessuna scatoletta. Ce ne anticipa una confezione che poi le portiamo la ricetta?"
Intervengo di autorità perché vedo la collega del tutto smarrita che tenta  di inserirsi con difficoltà  fra  toni che stanno diventando sempre più concitati.
Recupero il foglio di lavorazione dei blisteroni fatti nel passato e con calma faccio ordine (la mia grande specialità nonché il mio tratto distintivo), spiego  il significato delle singole parole e confronto  le due terapie.
"Ve lo avevo detto: non so come faccia (?!?), ma la dottoressa Bianca capisce sempre tutto". Bene, non ho ancora perso il mio tocco: sorvolo sul fatto che negli ultimi venticinque anni ho sfogliato distrattamente qualche libro sull'argomento e porto a casa il risultato. Si sono calmati e mi stanno ascoltando: vediamo di capire che cosa dobbiamo fare.
"Allora, tutto a posto: ci pensa lei. Passiamo questa sera a ritirare i blisteroni".
Ecco, proprio tutto a posto no: la paziente prima di andare in ospedale prendeva un farmaco per il controllo del dolore in un dosaggio peraltro piuttosto elevato, farmaco mai citato né  nella relazione dei medici che nelle dimissioni. E adesso cosa faccio? Non ho alcuna competenza per prendere una decisione del genere, interrogare i parenti non mi sembra il caso, decido di attaccarmi al telefono.
Primo approccio, il medico di base. Molto gentile, come sempre, mi risponde costernato che lui è solo il sostituto, non conosce bene né la malata né la situazione: per fare le cose per bene bisognerebbe sentire l'ospedale.
E sia, affrontiamo l'ospedale. Mi bevo una camomilla tripla, impugno il telefono come un gladiatore la spada, calo l'elmetto, preparo lo scudo, prendo un respiro profondo e mi accingo all'impresa.
Parlo successivamente con portinaio, infermiera, segretaria, infermiera, capo sala, specializzando, medico, capo sala. I toni passano da gentili, irritati, nervosi, dispiaciuti, incerti, arroganti, decisamente maleducati.
L'effetto della tripla camomilla è ormai svanito, mentre sto valutando se prendere una benzodiazepina o un antidepressivo, mi passano l'ennesimo medico. Ha una voce stanca, stufa, che fa il paio con la mia: ripeto per l'ennesima volta la stessa domanda, ormai ho assunto un tono lamentoso decisamente poco piacevole.
"Ma lei chi è? Una farmacista? Perché vuole sapere quali farmaci sono stati prescritti alla signora? Cosa c'entra lei?"
Ho esaurito le forze, replico fiaccamente che la mia farmacia si occupa di aderenza alla terapia riempiendo dei contenitori monouso per facilitare ai pazienti l'assunzione dei medicinali. Che l'informazione mi serve perché devo sapere che cosa metterci dentro, intendo  in questi famosi blisteroni, e me lo deve dire un medico perché lo scopo del lavoro è far rispettare alle persone le indicazioni dei medici, lasciando da parte le libere interpretazioni.
Dico tutto questo in un fiato, a bassa voce, stufa marcia di dovermi giustificare continuamente.
"Ma allora esiste veramente? Cioè, voglio dire, lei è vera, in carne e ossa, non è una macchina. Sa, in ospedale si favoleggia sul suo lavoro: molti sostengono che venga fatto da una macchina. Cioè, si, no, voglio dire, ci sono dei farmacisti veri, quelli con il camice bianco e tutto il resto, dietro a questa cosa?in America, mi hanno detto che ci sono delle macchine speciali che fanno tutto loro...
Perché, vede, i farmacisti, quelli veri, in genere non fanno queste cose......"
"E cosa farebbero i farmacisti veri?"  Il mio tono è cambiato,  adesso comincia a diventare pericolosamente lento e pacato.
Scoppia a ridere. "Ho detto una sciocchezza, vero? Non si inalberi: se le offro un caffè, mi perdona? Lei dev'essere proprio un bel tipo: ma chi glielo fa fare? Sa, mi piacerebbe proprio saperlo."
Mi metto a ridere anch'io: già, chi me lo fa fare?
Quando lo scoprirò, andremo a prenderci un caffè insieme. Promesso



domenica 24 luglio 2016

Incidente estivo

Si ferma davanti all'edificio l'enorme motrice bianca di un camion a rimorchio.
La notiamo perché sembra veramente molto grande nel piazzale che, a dire il vero, è piuttosto piccolo.
Scendono quattro persone  e in tre entrano in farmacia che in quel momento è piena di gente. Ci vuole poco: è talmente angusta che pochi  clienti sembrano una folla.
Comunque,  si mettono in fila e ciascuno  di loro si avvicina ad una delle tre postazioni dove stiamo lavorando.
Quello che parla con me mi mostra un cellulare dove è aperta una chat con dialogo  in arabo e foto di farmaci: alcuni li riconosco, hanno la confezione simile alle nostre. Richiedono tutti ricetta medica, in certi casi addirittura ricetta limitativa compilata da uno medico specialista:  non glieli posso proprio vendere. Mi indica altri nomi, ma questi non li conosco, non ho idea a cosa si riferiscano, non sono specialità italiane. Insiste, ma per lui non posso fare assolutamente  niente, mi dispiace.
Alla fine mi mostra le immagini di uno shampoo per bambini, in confezioni in lingue diverse  e mi chiede se almeno questo lo può avere. Non c'è l'ho, ma lo posso procurare per il mattino dopo.
Per lui va bene, passerà a ritirarlo l'indomani.
Mentre ciascuna di noi è impegnata in colloqui simili, la collega che occupa la postazione all'estremo opposto del bancone si accorge che il quarto individuo sta facendo diverse fotografie alla facciata della casa. Lo noto anch'io con la coda dell'occhio, ma sono impegnata ad arginare il mio cliente che dalla posizione frontale  mi è venuto di fianco e cerca di avvicinarsi alla stanza sul retro, e non riesco a vedere più di tanto.
È evidente che tutti e tre cercano di attardarsi e capire com'è disposta la farmacia (non che sia così difficile date le dimensioni complessive): continua ad entrare gente e data l'esiguità degli spazi devono rassegnarsi ad uscire.
Risalgono tutti sulla motrice e se ne vanno.
Decidiamo di avvertire i carabinieri: dopo un breve conciliabolo siamo giunte alla conclusione che avevano un atteggiamento ambiguo e sospetto. Mi preparo un discorso infarcito di scuse perché detesto fare la parte della donnetta isterica che cerca di attrarre l'attenzione a tutti i costi.
Con mia grande meraviglia il carabiniere al telefono mi prende molto sul serio e mi invita a inviargli subito per e-mail gli spezzoni dei video ripresi dalle telecamere. Comincio ad essere spaventata.
Contatto i due servizi di vigilanza, come mi è stato suggerito, e la preoccupazione aumenta: pare che siano prese di mira tutte quelle strutture che hanno attrezzature da laboratorio, sono merce preziosa, non si possono comprare facilmente. Ci raccomandano di fare molta attenzione, di fare in modo che ci sia sempre qualcuno nell'edificio, di segnalare subito qualunque elemento sospetto.
Sono tutti molto solleciti, molto zelanti, ma a me manca l'aria. Mi sento soffocare.
Non sono arrabbiata, né particolarmente allarmata, forse l'aggettivo che riassume meglio il mio stato d'animo è sgomenta: non volevo mettere le telecamere, non volevo dover controllare chi si avvicina o non si avvicina a casa mia o alla farmacia, non mi piace accogliere la gente con sospetto, non mi piace sentirmi assediata e spiata.
La cosa che mi disturba di più, però, è un'altra: guardiamo con sospetto tutti gli stranieri che non conosciamo, li avviciniamo con timore, osserviamo i loro gesti e i loro comportamenti più per capire se sono potenzialmente pericolosi che per cercare di aiutarli, come se il solo fatto di non parlare la stessa lingua costituisse già di per sé una minaccia.
Per fortuna dimenticheremo presto questo stupido episodio, archiviandolo come il frutto di paranoie estive, con il caldo che fa evaporare pathos e ansie. Rimane solo un certo sapore amaro, una traccia appiccicosa di sottile disagio come l'afa che si insinua un po' dovunque.

domenica 17 luglio 2016

Parole parole parole

Quest'estate abbiamo avuto ben due stagisti, due liceali che dovevano fare un'esperienza lavorativa durante l'estate.
Non nascondo che ero molto perplessa per questa iniziativa, sia dal punto di vista concettuale che organizzativo: che cosa gli facciamo fare a questi ragazzi? A che cosa può servire ad un adolescente che deve ancora finire la scuola superiore frequentare un luogo di lavoro così apparentemente poco attraente come una farmacia? Che senso ha un'iniziativa del genere?
È evidente che  scegliere di venire da noi è dipeso soprattutto dalla comodità e dalla vicinanza a casa: faccio fatica ad immaginare un giovane ansioso di sperimentare l'ebrezza di smistare pacchi o controllare lunghi elenchi di medicinali. Oltre a tutto, non abbiamo esattamente l'immagine di gran professionisti: come ho avuto modo di appurare, non avevano proprio idea di quanto frenetico, complesso e impegnativo fosse il nostro lavoro. Non pensavano che invece ci fosse un problema al minuto, una difficoltà dietro l'altra, intoppi e ostacoli a getto continuo.
D'altra parte, è difficile per il cliente rendersi conto che il gesto con cui consegnamo un farmaco è il frutto di una lunga catena di eventi che inizia col decifrare il bisogno di una  persona e termina con il proporre una soluzione: richiede  intuito, conoscenza, ricerca; esige organizzazione, fantasia, pazienza, flessibilità.
Mi sarebbe sembrato un gran bel risultato se questi ragazzi avessero concluso lo stage anche solo con questo pensiero: fare il farmacista non è facile e, se lo fai bene, fai un servizio importantissimo per l'intera società. Mi sarei accontentata che avessero iniziato a vederci con occhi diversi e, chissà, fra le varie opzioni universitarie cominciassero a includere anche questa. Il mondo ha bisogno di buoni farmacisti, molto di più di quanto non creda.
Poi, però, mi sono accorta che, forse fare un'esperienza del genere poteva offrire anche un'altra lezione basilare: l'importanza di una comunicazione efficace nell'ambiente di lavoro, sia fra colleghi che con il pubblico.
Ricordo mio padre che rimproverava a  mia madre di parlare come se alzasse l'audio saltuariamente lungo il flusso dei suoi pensieri: si lamentava che mancavano sempre soggetti e premesse e spesso anche alcune parti essenziali dei vari ragionamenti. Lei rispondeva serafica che non aveva nessuna necessità di perdere tempo a spiegare tutto per bene: si conoscevano da talmente tanto tempo che  lui era perfettamente in grado di integrare le parti mancanti del dialogo.
Mia figlia, che  ha da sempre con le parole un rapporto molto dinamico (le modifica, le inventa, le addomestica e le piega alle sue necessità) fino a due anni non ha parlato: consultato, preoccupati, uno specialista, ci spiegò che non aveva alcun deficit particolare, aveva semplicemente un fratello maggiore che rendeva inutile ogni sforzo in tal senso. Anche adesso lui è il suo traduttore ufficiale, quello che per primo intuisce il significato recondito di ogni sua espressione.
Purtroppo, però, quando si lavora, questa attitudine ad un lessico personale e familiare, questa incapacità di produrre una comunicazione efficace ed esaustiva (difficoltà diffusissima e ubiquitaria) diviene una fonte inesauribile di equivoci e disguidi, di pensavo, avevo capito, credevo, mi sembrava, che possono generare infiniti problemi, di inottemperanze, di malintesi.
Genitori ed insegnanti in genere lottano disperatamente per indurre i giovani ad adottare un linguaggio adeguato, ma rimane quasi sempre teoria, il capriccio di vecchi pignoli che si inventano continui tormenti, inutili pignolerie di un tempo passato e ormai obsoleto. Fra ragazzi basta una sigla, un acronimo, un accenno, e tutto sembra così chiaro ed evidente. Se l'altro non capisce, pazienza, semplicemente non si è ben integrato nel gruppo.
Ma quando lavori, quando il tuo gruppo è costituito da persone che hanno bisogno di te per rispettare un impegno, le parole servono tutte, così come servono le pause, le virgole, i toni, serve sapere quando si può scherzare e quando essere seri, quando sorvolare e quando ripetere. Bisogna sapere ascoltare, ma anche parlare e spiegarsi.


domenica 10 luglio 2016

Buon lavoro

È acclarato: l'inizio e la fine della settimana sono in assoluto i momenti peggiori nel lavoro.
Senza scomodare Leopardi o i grandi pensatori, si arriva al venerdì pomeriggio e si comincia a sentire il profumo del fine settimana. E si comincia ad illudersi. Si comincia a vagheggiare di un meritato riposo, di una pausa agognata e apparentemente così vicina che la puoi quasi toccare.
Uno dei propositi che immancabilmente faccio ogni anno è di chiudere il laboratorio il venerdì sera: ci fossi mai riuscita. Quando nascerò la prossima volta, sarò fermissima nello stabilire orari e disponibilità: in questa vita , però, non c'è proprio speranza.
 Sistematicamente, ogni benedetta settimana, ho due o tre clienti che all'ultimo minuto si rendono conto che non arriveranno a lunedì con i farmaci che devono assumere o che devono iniziare immediatamente una nuova terapia o che non avranno altro momento per ritirarli se non sabato mattina. Mi guardano speranzosi, io provo a negarmi; si appellano al mio buon cuore, e io cerco di resistere; mi pregano insidiosi, e capitolo miseramente. Forza di volontà sotto zero. Determinazione, questa sconosciuta.
Tanto tutti hanno già capito che non sono capace di rifiutarmi: il mio ego fragilissimo si nutre avidamente e masochisticamente dell'illusione di essere indispensabile.
Nella prossima vita, lo giuro, sarà tutto diverso.
Già, la prossima: perché in questa non sono stata molto brava e ho sbagliato un sacco di cose.Ma ormai è andata così: dubito fortemente di riuscire a cambiare veramente  qualcosa.
Al venerdì impegnativo, ma ancora ricco di speranze, seguono,  in genere, un sabato pomeriggio e una domenica schizofreniche in cui cerco di recuperare e mettermi in pari con tutto quello che ho tralasciato durante la settimana, sommato a tutti quegli impegni che mi sono accollata senza che nessuno me lo imponesse,  per approdare al lunedì stremata insoddisfatta angosciata frustrata.
E sì che basterebbe poco, me ne rendo conto, per imprimere una svolta alle mie giornate: il problema è che il vuoto mi atterrisce, l'idea di avere davanti del tempo non stipato di obblighi mi lascia smarrita e confusa.
Ho un amico che, ad intervalli regolari, in particolare quando lo tormento senza pietà con un milione di quesiti e di progetti, invoca una tregua proclamando ufficialmente che appena può vende tutto e abbandona ogni attività: a parte l'errore tattico (se non ha sufficienti stimoli mi sento in dovere di dargliene di nuovi  e moltiplico gli sforzi per riempirgli l'esistenza: certe volte arriva a far pena perfino a me), è una posizione che mi sconcerta perché non riesco proprio a concepire un'idea simile. E dopo? Come si fa ad alzarsi al mattino con l'idea di avere davanti a sè delle ore intonse da riempire, senza uno scopo preciso, un'urgenza, una montagna di problemi che incalzano per essere risolti? Potrei deprimermi a morte, inaridirmi come la surfinia che mi sono dimenticata di innaffiare, spegnermi come una candela che ha esaurito il suo stoppino.
"Non c'è pericolo. Che Dio abbia pietà di noi il giorno che andrai in pensione: non voglio immaginare in quali folli progetti ci trascinerai tutti, con che ritmo incalzante  ci investirai di idee travolgenti, quali salti mortali dovremo fare per stare dietro a te e ai tuoi pensieri." Mio figlio, quello, per intenderci, che ha fatto del sarcasmo uno stile di vita, mi guarda sornione, in bilico fra il lusingato e  il preoccupato.
Non ho mai del tutto capito i sentimenti dei miei figli nei miei confronti: credo che non siano chiarissimi neppure per loro. Mi sembra che oscillino fra orgoglio e perplessità per una mamma non proprio tradizionale. Non mi cambierebbero con una mamma "per bene", ma non vado neppure esibita liberamente.
"Non voglio che parli con i miei amici perché fai loro domande troppo difficili." Quali sono le domande difficili? Ci sono domande inopportune, imbarazzanti, indelicate, ma difficili? Che cosa significa difficili? "Ecco, appunto".
I dialoghi surreali a casa nostra si sprecano. Come le discussioni all'ultimo sangue su argomenti del tutto peregrini come la preminenza dell'approccio induttivo su quello deduttivo nel metodo scientifico o le controversie su un oscuro passaggio della Divina Commedia,  con litigi a coltello come se ne andasse della nostra stessa vita e dell'intero destino dell'umanità. Nel gioco delle parti e nella foga dei ragionamenti, dimentichiamo completamente le rispettive posizioni iniziali, il tempo che scorre, i compiti da portare a termine.
Una nuova settimana sta per iniziare. Buon lavoro.

domenica 3 luglio 2016

L'inizio della fine

La prima stanza, quella destinata ad essere un ufficio, è completata. Mancano ancora dei dettagli come i battiscopa e le cornici delle porte, ma possiamo dire che è praticamente finita.
Un miracolo. Preceduto ed accompagnato da tutta una serie di colpi di scena che hanno movimentato la settimana: mettiamola in questo modo, se mai temessimo di annoiarci o scadere in una banale routine, non mancano gli incidenti e gli intoppi a rassicurarci e a garantirci giornate vivaci ed estenuanti.
In origine era una stanza molto grande che col tempo abbiamo invaso completamente con le nostre carte, i documenti, le stampanti che non trovavano pace da nessuna parte. Quando abbiamo deciso di destinarne metà ai laboratori non mi sono resa conto di quanto sarebbe diventata piccola: l'unica cosa di cui ero certa era che volevo divisori di vetro trasparente per non sentirmi in prigione sia da una parte che dall'altra. Subito non sono stata accontentata: la prima versione aveva tutte pareti cieche e l'effetto finale era quello di una tomba egizia con il piccolo corridoio finale che poteva essere benissimo l'ultima dimora del sarcofago del faraone. Un disastro.
A questo punto ho commesso l'errore più grosso: invece di arrabbiarmi e prendermela con tutti avrei dovuto parlarne con calma con l'architetto che ha progettato il lavoro, spiegare meglio quello che volevo e lasciare che fosse lui a tradurre in pratica i miei desideri. In realtà, io non sapevo davvero quello che volevo: avevo un'idea generica di quello che mi sarebbe piaciuto, ma non ero in grado né di sapere se avrei potuto realizzarlo né di che cosa avevo veramente bisogno.
La stessa cosa accade mille volte al giorno ai nostri clienti: entrano in farmacia e chiedono un rimedio o un farmaco. Ma molto raramente sanno di che cosa hanno realmente necessità: non hanno alcuna competenza specifica per questo e, inoltre, inevitabilmente,  hanno una percezione del tutto soggettiva dei sintomi.
Il farmacista è il primo interprete, il primo traduttore, dei loro problemi: la sua prima, fondamentale, funzione è di capire se la situazione richiede l'intervento di un medico e con quale urgenza o se è possibile ricorrere ad un semplice rimedio per trovare una soluzione. La sua vera abilità è la capacità di intuire quando un sintomo rivela un disturbo banale o nasconde una patologia molto più seria.
Una stupida tossetta può dipendere dall'uso disinvolto dell'aria condizionata fino a denunciare una sofferenza cardiaca: per vendere uno sciroppetto qualunque (adulto o bambino? tosse secca o grassa?)  sono sufficienti un robot e la pubblicità. Neppure per mandare indistintamente tutti dal medico o dallo specialista serve un farmacista: ansiosi e ipocondriaci sono  bravissimi ad intasare i Pronto Soccorso.
Guardare una macchia o una presunta micosi di un' unghia non è certo obbligatorio: rimane un mistero come si possa dare un consiglio qualunque solo con informazioni riportate. Internet è pieno di nozioni generiche e la sfera di cristallo ogni tanto non funziona: anche in questo caso che cosa diamo di più come professionisti?
Ci possiamo sbagliare? Certamente, mille volte al giorno. Ma se il consiglio riguarda solo farmaci di libera vendita, siamo ampiamente legittimati: da nessuno è possibile pretendere la perfezione, siamo ancora ampiamente nella nostra sfera di competenza e l'errore è ammesso.
Quando vendiamo un farmaco con obbligo di ricetta senza la giusta motivazione sconfiniamo nell'abuso  di professione medica, non quando facciamo diagnosi in una patologia minore e suggeriamo un rimedio che a noi appare adeguato: mi sfugge completamente perché non solo ci preoccupiamo del contrario, ma condanniamo scandalizzati se un collega verifica la presenza di parassiti e consiglia la profilassi corretta. Oltretutto, la maggior parte dei presidi per pediculosi non sono neppure farmaci, ma gli antibiotici e gli antidolorifici ad alto dosaggio sì: perché non sembra molto più grave arrogarsi il diritto di dispensarli liberamente a coloro che lamentano mal di gola o cistite? Non è questo il nostro lavoro.
La laurea e l'abilitazione sono il primo gradino, indispensabile, per svolgere una professione: da qui inizia il percorso più duro e accidentato per imparare a diventare dei professionisti. L'università ha dato le basi ed un metodo di apprendimento:  è dopo che si deve cominciare  a studiare e ad approfondire le conoscenze per farle uscire dalla teoria e immetterle nella realtà. E se all'università una cosa non me l'hanno insegnata, non commetto un abuso se apro un nuovo libro e la studio.



sabato 25 giugno 2016

Piccola rivoluzione copernicana

Finalmente è arrivato il caldo.
Dopo un mese di piogge e freddo le giornate iniziano luminose e preannunciano temperature estive.
Naturalmente sono già iniziate le lamentele per il caldo: archiviate le proteste per una primavera capricciosa e altalenante (ma non erano sparite le mezze stagioni?), sono ufficialmente iniziate quelle per il sole, l'afa, la temperatura insopportabile.
Sono aumentati anche nervosismo e insofferenza da parte dei clienti, la voglia di ferie e di mare un po' di tutti, i nostri lavori edilizi che non vedono una fine: il risultato è una situazione che in certi momenti sfiora, raggiunge e supera veri momenti di delirio collettivo.
Intanto stiamo lavorando barcamenandoci in spazi sempre più problematici: pare che la settimana prossima ci completino la stanza che abbiamo deciso di destinare all'ufficio. Nel frattempo, continuiamo a spostare enormi pile di carte, libri, caterve di documenti che non trovano pace da nessuna parte, smarrendosi e confondendosi e mescolandosi senza alcuna speranza di arrivare integri e rintracciabili alla destinazione finale.
La cosa più simpatica riguarda i condizionatori: sono tutti istallati e pagati, ma non sono stati allacciati alla rete elettrica, per cui, oltre al resto, dobbiamo fare la caccia al tesoro in un caldo appiccicoso e snervante. A turno sono passati i vari responsabili, elettricista idraulico architetto, hanno preso atto della situazione, hanno convenuto che l'ambiente è invivibile, e se ne sono andati. Ci sarà dato sapere, prima del prossimo inverno, se potremo contare su un efficiente impianto di climatizzazione? Per quale misterioso motivo le persone che ci stanno ancora lavorando, pittori falegnami vetrai, devono farlo in condizioni disumane avendo a disposizione tutto quello che serve per  rendere l'ambiente più accettabile? Mistero.
Al di là delle crisi isteriche che ormai fatico a tenere sotto controllo, mi rimane la curiosità intellettuale di capire la logica di certe decisioni, perché faccio veramente molta fatica ad accettare l'idea che chi progetta ed organizza un lavoro non si renda conto dei problemi e delle difficoltà pratiche, e facilmente superabili, che si creano continuamente.
Poi, siccome tutte le esperienze sono in realtà un'occasione per ampliare l'ambito della riflessione, mi sono venuti subito alla mente tutta una serie di osservazioni e paralleli nel nostro mondo professionale e ne sono uscita sconcertata.
È fuor di dubbio che tutti i giorni dobbiamo fare i conti con una serie di regole illogiche, raffazzonate,  antiquate per non dire obsolete. Possibile che a nessuno sia mai venuto in mente che il primo, essenziale passo da fare per far approdare la farmacia nel nuovo millennio (finalmente!) sia cambiare le regole del servizio farmaceutico? Discutiamo in modo del tutto improduttivo di nuovi servizi e ruoli e continuiamo ad accettare che la validità di una ricetta sia determinata rigidamente dalla categoria del farmaco e non dalla volontà del medico? Possibile che tutto questo sembri assurdo solo a me?
In un mondo razionale ed efficiente il medico non solo stabilisce la terapia, ma ne fissa anche la durata e il farmacista si adopera perché il paziente abbia la quantità giusta di farmaco per rispettare la volontà del medico: è impensabile, assurdo e irrazionale che le regole dell'esitabilità siano stabilite a priori, peraltro in base ad una categorizzazione dei farmaci vecchia e ampiamente superata. Accettare e mantenere un sistema del genere vuol dire deresponsabilizzare i medici, che non sono neppure liberi di organizzare una strategia terapeutica; appesantire una burocrazia già fin troppo opprimente per tutti; banalizzare il farmaco stesso, che cessa di essere rimedio personalizzato per diventare bene di consumo; ed infine, ultimo ma non meno importante, svilisce e squalifica la funzione del farmacista, ultima pedina esecutiva di un sistema assurdo e paradossale.
Ecco, io partirei proprio da qui, da questa piccola e banale rivoluzione copernicana: una riforma completa e sostanziale del servizio farmaceutico. Non una di quelle riforme a cui siamo abituati, dove si cerca di salvare capra e cavoli, cercando sempre di accontentare un po' tutti, ma, in realtà, per arrivare a non modificare veramente niente: cambierei radicalmente le regole perché cambierei l'idea che ne sta alla base. E non è neppure un'idea particolarmente originale: in molti paesi stranieri le cose funzionano in questo modo già da molto tempo e non funzionano male.
Il medico visita il paziente, ipotizza una diagnosi e una prognosi, indica una terapia e la sua durata; il farmacista subentra e si impegna affinché quel dato paziente sia in grado di curarsi come il medico ha prescritto.
È così difficile immaginare un sistema come questo?
Ne avremo il coraggio e ne saremo capaci? Non ne ho idea, ma, secondo me, non abbiamo altra scelta.

sabato 18 giugno 2016

Domande

Abbiamo un mese e mezzo di ritardo nell'allestimento dei nuovi laboratori.
Dire che sono esasperata è un gentile eufemismo.
Lavoriamo ancora in mezzo al caos più sovrano  con spazi che si restringono ogni giorno di più e la beffa di vederne continuamente di ampi e comodi senza poterli utilizzare. Una tortura.
Nel progettarli abbiamo riflettuto e discusso a lungo sull'applicazione reale delle norme di sicurezza e questo ci ha indotto  a modificare e rivedere tante abitudini che non solo avevamo radicate, ma ritenevamo corrette e ragionevoli.
Come sempre si è rivelata l'esperienza più utile e feconda: guardare attentamente molto di quello che si da per scontato, analizzarlo e valutarlo consente di vedere tutto sotto una luce diversa.
Si scoprono un sacco di cose molto interessanti e poi, siccome da cosa nasce cosa, e siccome, certe volte, a pensare ci si prende anche gusto, abbiamo allargato l'oggetto della discussione.
Abbiamo cominciato a ragionare su di noi: chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Le solite domande esistenziali, insomma, quelle inutili, retoriche, banali domande che l'uomo si pone dalla notte dei tempi e alle quali non esiste una vera risposta.
A questo punto, probabilmente, molti si chiederanno quanto tempo abbiamo da perdere se passiamo le giornate ad arrovellarci su questioni di lana caprina. Me lo chiedo anch'io. Spesso.
Anzi, spesso mi domando perché io mi complico così tanto la vita (e la complico agli altri) spaccando capelli in mille parti, ponendo domande a destra e a manca, inquisendo, insistendo, tormentando chi mi capita a tiro su argomenti che, alla fine, non interessano veramente a nessuno.
Perché a me interessano. Perché non sono capace di darmi pace, farmi gli affari miei, prendere le cose come vengono. Ho un'insopprimibile vocazione alle minoranze e alle cause perse in partenza, alla battaglie inutili e alle guerre ideologiche.
Pazienza, nessuno è perfetto.
Per esempio, ci siamo chiesti: dove sta andando la farmacia italiana? Da nessuna parte, per definizione.
La vera domanda è: dove stanno andando i farmacisti? Chi sono, oggi? Che cosa vogliono o vorrebbero essere? Che cosa vogliamo diventare noi, qui, ora?
La farmacia è sempre la solita offerta di farmaci, prodotti, oggetti, servizi degli ultimi vent'anni: cambiano i colori, i prezzi, gli espositori, i marchi, ma è sempre rigorosamente la stessa.
E i farmacisti? Noi a che punto siamo? I miei collaboratori ed io siamo cambiati?
Quesito angosciante: ci è chiaro che dobbiamo cambiare? Perché credo che questo sia veramente il punto. Sentiamo la necessità, l'urgenza di cambiare noi stessi? O ci ostiniamo a pretendere  che cambi ciò che è inanimato nella speranza che ciò che è vitale rimanga sempre lo stesso?
Non possiamo sempre trincerarci dietro il sistema: l'università non prepara, il contratto non è stato rinnovato, i collaboratori costano troppo. Che senso ha investire in un servizio e non su coloro che tale servizio dovranno promuoverlo e gestirlo? Acquistare tutte le migliori novità e non dedicare un'ora del proprio tempo a conoscerli bene questi benedetti prodotti, a capire che cosa hanno di così speciale e perché dovrei consigliarli? A chiederci, seriamente, che cosa ci sto a fare qui, qual'è il mio compito, a che cosa servo?
Possibile che ancora non sia chiaro che la formula per la farmacia del futuro è di una semplicità e banalità sconcertante? Un progetto, un responsabile e una squadra.
Un progetto: non esiste una sola farmacia, ne esistono mille. Tutte valide, interessanti, potenzialmente vincenti. Se ruotano attorno ad un'idea, se si ispirano ad un modello, se hanno un obiettivo ben definito.
Un responsabile: nulla si persegue senza qualcuno che organizzi, coordini, supervisioni. Non basta dare ordini o indicazioni: si deve motivare, formare, affiancare, correggere. Spingere all'autonomia, ma essere sempre pronti ad intervenire per prendere una decisione, superare un intoppo, dribblare un ostacolo.
Una squadra: a dei collaboratori oggi si deve chiedere molto di più che non fare poche assenze o arrivare in orario. Abbiamo bisogno di persone competenti, motivate che apportino al lavoro un contributo molto più personale e fattivo. Ci servono dei professionisti.
Siamo tutti pronti per questo: non lo so. Per il momento, ho solo domande. Tante, troppe.
Le domande sono la mia specialità.