domenica 21 febbraio 2016

Ce la possiamo fare (forse)

Sono esattamente tredici mesi che sono ostaggio di muratori, elettricisti, idraulici e maestranze varie. Tutto è cominciato con una piccola macchia di umidità su un muro: a momenti mi hanno rifatto tutta la casa. E non è ancora finita: non passa settimana che non mi cerchi qualcuno per comunicarmi con aria contrita che hanno scoperto un nuovo guaio, un'altra tubatura sta per cedere, è comparsa l'ennesima crepa su cui dobbiamo assolutamente intervenire.
Se facevo radere la casa al suolo e ne costruivo una nuova (magari prefabbricata, magari tutta di legno, all'americana) non solo facevo prima, ma avrei speso molto meno e avrei dato una chance in più al mio già fragile sistema nervoso.
Invece  sono ancora qui, a lottare per queste vecchie mura, quelle in cui hanno vissuto e sono morti i miei genitori, dove sono nati i miei figli e dove ho vissuto quasi tutta la vita.
E non è ancora finita. Anzi, il meglio è appena iniziato: adesso tocca alla farmacia. Siccome ho sempre paura di annoiarmi, mi sono inventata di ampliare il laboratorio galenico. A dire il vero, ne avevamo veramente bisogno: lavoriamo in nove in ottanta metri quadri e in certi momenti, più che lavorare sembra che giochiamo a Tetris, incastrando noi e i nostri impegni in un sistema perverso nel quale bisogna anche prenotare l'uso di un determinato terminale del computer. Non parliamo poi dell'accesso alle scrivanie: mucchi di fogli e carte che migrano da un angolo all'altro, si mescolano, si nascondono, spariscono per riapparire misteriosamente in luoghi impensati e inesplorati.
Bene, a breve (si fa per dire) avremo cinque nuovi laboratori e un vero e proprio ufficio: sogno questi spazi da moltissimo tempo, mio padre non me li ha mai concessi. Ci ho provato innumerevoli volte, ho mandato avanti anche il suo nipote preferito, ma niente, la risposta era sempre la stessa: hai una farmacia piccola, di periferia, stai nel tuo; non ti esporre troppo, dove vuoi andare, non ti mettere in competizione con quelli più grandi e più forti di te, non hai speranze, chi vuoi che venga a farsi preparare un farmaco galenico da te.
Non che avesse proprio tutti i torti: lavoriamo in una farmacia piccolina, vecchiotta, in un posto infelice, ai limiti del centro abitato.Niente a che vedere con quei posti raffinati ed eleganti che sono oggi le farmacie più rinomate: la zona adibita al pubblico è ancora dominata da un vecchio bancone, come si usava trent'anni fa in provincia. Il più delle volte, per riuscire a dialogare meglio con un cliente, lo oltrepasso, e ci mettiamo in un angolo per avere un po' di privacy e parlare guardandoci bene in faccia. Ecco, è un posto così, molto alla buona: la vetrina è un'esibizione di bulbi, di fiori, di composizioni verdi e colorate che allestisco in tema con il periodo dell'anno. Il bello della natura mi rasserena e mi consola: la offro ai miei clienti come la più dolce delle medicine. Mal che vada, ci scambiamo con le clienti ricette magiche su come far fiorire più a lungo le violette.
Solo che in questi anni ci siamo impegnate anche su altri fronti e, piano piano, abbiamo cominciato a farci conoscere sia per il nostro impegno nei confronti della compliance e aderenza alla terapia, sia nella galenica. La cosa che mi inorgoglisce di più è il rapporto che siamo riuscite ad instaurare con alcuni medici e ospedali: non posso negare che quando mi telefonano per sottopormi un problema e cerchiamo insieme delle soluzioni per aiutare un paziente con particolari difficoltà mi sembra di aver raggiunto un obiettivo importante della mia vita.
E poi ci si è messo mio figlio: una brillante laurea in chimica, interessanti esperienze lavorative e infine la sorpresa. Se mi vuoi, vengo a lavorare da te: fare il farmacista come lo fai tu è bellissimo, ci sono ancora mille strade da esplorare, insieme possiamo fare moltissimo. Mi iscrivo a farmacia e intanto imparo il mestiere.  Potevo dire di no?
Per cui, eccomi qua: tra un calcinaccio e un martello pneumatico, in mezzo a polvere e caos, oscillo fra sogni e paure, sperando di averci visto giusto; rassicuro me e gli altri sul nostro futuro senza nessuna certezza, nascondendo tutti i dubbi del mondo, pregando, alternando un atto di fede e uno di sconforto. Ne sarà valsa la pena?
Mio padre mi avrebbe risposto: ai posteri l'ardua sentenza.
Hai voluto la bicicletta, adesso pedala.
Speriamo di esserne capace.


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