domenica 28 febbraio 2016

Giornate di ordinaria follia

Ci sono dei giorni in cui tutto sembra andare storto.
Inizi la giornata e sei già stanca prima ancora di cominciare a lavorare. Dopo di che, non c'è più niente che funziona. In genere, il primo a fare l'anarchico è il computer: hanno un bel da dire che è una macchina che fa solo quello che gli dici di fare, quando decide di non collaborare non collabora. Ed è inutile che mi ripetano che la causa è sempre un errore umano: mi rifiuto di sentirmi colpevole se, spazientita da connessioni lente e finestre aperte a caso, comincio a premere tasti in modo sempre più parossistico, mandando definitivamente in tilt il sistema. Ha cominciato lui: io ho solo reagito, magari in modo scomposto, ma solo dietro decisa provocazione.
A questo punto, innervosita dalle cose che non funzionano, irritata dal tempo che sto perdendo e che non ho, infastidita dai programmi saltati e dalla tabella di marcia inevitabilmente sconvolta, mi trovo, mio malgrado, invischiata in una specie di valanga di problemi, alcuni veri e urgenti, la maggior parte  del tutto vacui e inconsistenti, buoni solo a rendere la giornata sempre più confusa, caotica e difficile.
In un mondo perfetto, anche solo migliore, le persone sagge ed equilibrate mollerebbero tutto  e andrebbero a fare due passi in mezzo ad una natura placida e rilassante: non è il mio caso. Mai. Neppure per sbaglio.
L'ultima volta, al culmine di una serie di eventi negativi che si ampliavano in un crescendo esponenziale, una delle mie collaboratrici mi ha tolto tutto quello che avevo in mano e mi ha cacciato fuori prima dal laboratorio e poi dalla farmacia. Ha fatto benissimo: ormai emettevo una tale elettricità da poter sostituire efficacemente i pannelli solari per almeno un mese.
Mi sono seduta sull'ultimo gradino della scala esterna, ho resistito all'impulso di scagliare lontano il cellulare, l'ho spento con garbo e sono rimasta lì, lo sguardo nel vuoto e il respiro che, piano piano, ritornava regolare. Sono stata a lungo incerta fra mettermi a piangere, mettermi a urlare, rompere tutto quello che avevo a portata di mano, attaccarmi al telefono e sfogarmi con un'amica, non fare più assolutamente niente, fuggire lontano e non tornare più. Ora: mettermi a piangere non è il mio forte; urlare ho già urlato e rompere quello che potevo l'ho già fatto, e non mi hanno aiutato  neanche un po'; le mie amiche, in questo momento, sono ancora più in difficoltà di me e non mi sembra giusto approfittarne; andarmene via e rimanere lontano sarebbe bello, ma temo che mi troverebbero ovunque. E poi sarei in preda a tutti i sensi di colpa possibili ed immaginabili.
Mi viene da ridere: mi rivedo in mezzo alla stanza, mentre inveisco contro tutte le macchine, me la prendo con i becher colpevoli di essere di vetro e di rompersi, discuto a morte con la calcolatrice che non capisce al volo che operazione voglio fare e si ostina a offrirmi risultati che non mi servono. Abbaio contro il telefono che sembra posseduto e non la pianta di squillare, le carte che giocano a nascondino da un tavolo all'altro, i libri che appena ti servono spariscono, e mi sento profondamente ridicola: il terzo camice sporcato in un'ora, i capelli spiritati, le dita graffiate e un baffo di pennarello su una guancia.
Adesso rido, senza ritegno, di una risata profonda e liberatoria.
Comincia a piovere: è il caso di rientrare e ricominciare da capo.
  "Com'è allegra, questa mattina, dottoressa! Anche se piove è  una buona giornata: beata lei, è sempre di buon umore, vuol dire che le va tutto bene"
Lo uccido o lo abbraccio?

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