domenica 24 gennaio 2016

Dire e ridire, fare e disfare

C'è un libro, "L'arte di correre " di Haruki Murakami, che amo particolarmente, uno dei tre, per intenderci, che porterei nella famosa isola deserta: l'ho regalato, entusiasta, ad un sacco di persone,ma pare piaccia solo a me. Mi piace per quel suo modo semplice e assolutamente minimale di raccontare le cose, di parlare della sua vita, come se diventare uno dei più noti scrittori giapponesi fosse un evento del tutto naturale, quasi inevitabile. Come se correre per cento chilometri filati fosse alla portata di tutti e non un miracolo riservato a pochissimi e il frutto di allenamenti infiniti ed estenuanti.
Ogni volta che lo rileggo, dopo qualche pagina, mi viene voglia di provare. Di chiudere il libro e cominciare a correre, e correre, e correre; mettermi a scrivere i nuovi "Promessi sposi" (o, almeno, qualche capitolo della "Ricerca del tempo perduto", solo per essere più modesta). Che ci vuole?
Niente. A parte un gran talento innato, volontà ferrea, impegno e dedizione totale. Naturalmente tutti assieme. Naturalmente per un tempo non prevedibile, ma sicuramente lunghissimo. Naturalmente senza nessuna garanzia di successo. Bazzecole.
Bene, lasciamo perdere.
Il vero problema è che, nella vita, è un po' tutto così. Da fuori sembra  sempre molto facile: se c'è riuscito quello lì che non vale niente, io posso fare molto meglio. Se ce la fa quello là è solo perché è nato fortunato, bello intelligente e ricco. Se avessi avuto io la sua fortuna oggi sarei al posto di Marchionne, Rita Levi Montalcini ed Elsa Morante.  Anzi meglio.
E invece no. A parte le buone idee, che sono in assoluto la merce più rara e preziosa, dono divino a pochissimi, bisogna avere anche la capacità di riconoscerle, il coraggio di difenderle, la determinazione di perseguirle. E lungimiranza, pazienza, fantasia. Amen.
Meglio tornare alle difficoltà di tutti i giorni e provare a risolverne qualcuna.
La più urgente, in questo momento, riguarda la gestione del cliente: abbiamo delle crisi ad intervalli regolari, ma sospetto che il problema sia molto più serio e profondo di quanto non sembri.
Dopo lunga e penosa riflessione credo di aver individuato un punto particolarmente ostico: le persone ti trattano come tu permetti che ti trattino. Anche in questo caso, in fondo, si tratta di una banalità su cui non varrebbe neanche la pena di soffermarsi se non nascondesse un'altra questione molto delicata e spinosa: autorità, rispetto e credibilità non possono essere pretesi, pena l'essere percepiti come arroganti e presuntuosi. Esattamente il contrario di quanto si desidera.
Come sempre, è una questione di forma e di sostanza: il pensiero ha bisogno delle parole per esplicitarsi e le parole rivelano un pensiero. Detto in altro modo: se non nutro sincero rispetto per le persone, le mie parole, il tono e i miei modi lo rivelano. Se il mio interlocutore sente la mia mancanza di rispetto mi ricambia con la stessa moneta. Comunicazione impossibile.
Non servono necessariamente appellativi volgari o modi sgarbati: il mio pensiero si esplicita in mille modi molto più impercettibili, ma inesorabili.
Poi c'è la sostanza, il significato stesso del concetto di rispetto: credo si possa riassumere con l'idea di "attenzione". Ti vedo, ti ascolto, ti considero e ti rispondo. Non è semplice? Che ci vuole?
Peccato che, in genere, non ci vediamo affatto; di ascoltarci non se ne parla nemmeno; in quanto a considerarci lasciamo perdere; cosi spesso finiamo per rispondere del tutto a caso.
Da dove comincio?
Visto che intervenire sul pensiero è obiettivamente molto difficile, proviamo a mettere a punto delle strategie per imparare a gestire le situazioni difficili più comuni: imparare ad analizzare e a riflettere su determinate circostanze ed avere un modello comportamentale al quale ispirarsi può aiutare i più timidi ad affrontare ciò che, in fondo, li spaventa. Magari, tra un'analisi e l'altra, tra una discussione e una prova, si riesce anche a vedere se stessi e il modo che ci circonda con occhi diversi.


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