domenica 3 gennaio 2016

Siamo arrivati ai buoni propositi per l'anno nuovo

È da ieri che ci penso: per una volta mi piacerebbe fare una cosa ragionata, credibile e realista, non una specie di elenco che inizia con "sarò più calma, mangerò meglio, etc", per finire "lotterò per la pace nel mondo". Non ho nessuna intenzione di muovere un dito per la pace nel mondo, non ci credo, ho la guerra in testa (lo dice una mia collaboratrice) oltre ad un sacco di altre idee.
Dopo lunga e penosa riflessione ho deciso: dedicherò il 2016 alla comunicazione.
 Mi sono accorta che è il vero punto dolente dei rapporti umani in genere e del mio personale microcosmo in particolare.
Spesso ascolto dal laboratorio pezzi di dialoghi che si intrecciano in farmacia: li sento, ma non vedo chi li pronuncia; colgo toni e inflessioni, ma mi mancano le espressioni ed il linguaggio del corpo. È un esercizio interessante perché mi permette di analizzare la qualità del processo comunicativo.
Mio padre diceva che mia madre quando parlava sembrava che accendesse l'audio a caso in mezzo al flusso dei suoi pensieri. Bene, ho scoperto che questo, in modo più o meno marcato, accade quasi a tutti e anche molto di frequente. Intanto, molto spesso, manca il soggetto della frase quando non è per niente sottinteso: sembra una sciocchezza, ma, vi assicuro, nelle comunicazioni di servizio cercare di far mente locale su di che cosa stiamo parlando fa perdere un mucchio  di tempo e ingenera un sacco di equivoci.
Un altro elemento critico riguarda i tempi della comunicazioni: parlare ad una persona concentrata in un altro lavoro non solo la disturba, ma, soprattutto, è del tutto inefficace. Lo ripeto almeno venti volte al giorno, ma le brutte abitudini sono dure a morire.
Sul fronte dei contenuti, invece, il problema è più complicato: per qualche bizzarro motivo si tende a ritenere più educato (o meno aggressivo) non parlare chiaramente e direttamente, ma tacere sul momento per brontolare o criticare o contestare in separata sede, in assenza dell'interlocutore d'elezione. In questo caso interviene una certa confusione fra forma e sostanza: dire ad una collega " se fai in questo modo mi metti in difficoltà: puoi fare in quest'altro modo?" non può essere considerato in alcun modo una mancanza di rispetto  o fonte di offesa da lavare col sangue. Tacere di fronte a qualcosa che disturba per poi o sbottare in modo brusco quando si è giunti al limite o mugugnare a mezza voce con tutti quelli che capitano a tiro tranne il diretto interessato  è molto peggio.  I dissapori si ingigantiscono ed il malumore serpeggia senza tregua.
Il punto vero è un altro: talvolta non è un singolo gesto o un comportamento quello che disturba, ma un insieme di atteggiamenti, un modo di porsi in generale ed è molto difficile affrontare il sentire confuso ed indefinito che domina la situazione. È inutile negarlo: nel gruppo tendono a prevalere più debolezze e fragilità che non i punti di forza di ciascuno.
E bisogna chiarire un'altra questione: per lavorare bene assieme e costituire una squadra unita non si deve essere necessariamente amici nel senso più comune che si attribuisce a questo termine. Stare bene con altre persone e collaborare con esse non richiede per forza una condivisione anche della propria sfera privata. Se nasce spontaneamente un legame più intimo è un'ottima cosa, ma ognuno a diritto alla salvaguardia e al rispetto della propria individualità e delle proprie scelte. Quando ci si addentra nel mondo dei sentimenti ci si caccia in un ginepraio da cui è difficile uscirne indenni o, perlomeno, con pochi danni.
Mi consola il fatto che c'è lavoro almeno per  altri tre anni: fino al 2019 sono a posto con i buoni propositi.

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